Le Nazioni Unite guardano all’Asia per riformare l’economia mondiale. Gli occhi non sono però sulle due locomotive cinese e indiana, ma sul lento e felice Bhutan. Non più crescita e prodotto interno lordo; per due giorni al Palazzo di Vetro a New York, leader mondiali ed economisti discuteranno del “paradigma economico” di cui il piccolo regno buddista incastonato tra le due potenze emergenti è diventato il portabandiera: la felicità.
“Dobbiamo ripensare questo modello basato esclusivamente sulla crescita e capire come possiamo prosperare in armonia con la natura. Non possiamo accettare come irreversibili la distruzione della natura e il collasso finanziario” ha spiegato Jigmi Thinley, primo ministro del Paese himalayano che ha invitato i capi di Stato e di governo nella capitale Thimphu per discutere di come riformare il sistema finanziario internazionale e di nuovi modelli con cui determinare il progresso di una nazione.
Già dal quattro anni il Bhutan adotta come indicatore per calcolare il benessere della popolazione il cosiddetto indice di Felicità interna lorda. La svolta decisa dal trentaduenne monarca, Jigme Khesar Namgyel, fu in realtà teorizzata negli anni Settanta del secolo scorso dal nonno. I criteri presi in considerazione sono la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali. Secondo i dati della Banca Mondiale, il Paese è uno dei più poveri dell’Asia, con un Pil pro capite di 1,800 dollari. Tuttavia, secondo un sondaggio della rivista Businessweek, è anche la nazione più felice del continente e l’ottava al mondo.
Ad agosto del 2011 il modello bhutanese fu fatto proprio dall’Assemblea generale dell’Onu con una risoluzione che riconosceva il raggiungimento della felicità come un traguardo fondamentale dell’uomo ed esortava gli Stati membri a sviluppare metodi più efficaci del Pil per misurare il benessere dei propri cittadini.
Il video-messaggio del principe Carlo d’Inghilterra e la presenza agli incontri di economisti quali Joe Stiglitz e Jeffrey Sachs, oltre che del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon mostrano come queste considerazioni stiano facendo breccia nella comunità internazionale. I leader occidentali guardano a questi cambiamenti con pragmatismo. Come ha spiegato all’agenzia France Presse, l’inviato britannico Gus O’Donnell, le future decisioni di Londra saranno prese valutando anche costi e benefici in termini di benessere dei cittadini. Lo stesso vale per la strategia comunicativa. Per esempio nella campagna contro l’evasione fiscale, in cui si enfatizzano i servizi di cui la comunità potrà godere con il pagamento delle imposte. Anche in Australia per molti anni il governo ha preso in considerazione “le opportunità e le libertà” che i cittadini potevano guadagnare o perdere dall’approvazione di una determinata legge.
Gli ideatori dell’indice di Felicità lorda interna non vogliono però passare per anti-tecnologici e anti-materialisti. “Non c’è nessun ritorno alla vita semplice”, si legge nel documento di presentazione di una conferenza sul tema tenuta lo scorso agosto a Thimphu. “Nel mondo vivono sette miliardi di persone. Questo comporta tremende difficoltà nel soddisfare i bisogni di tutti ed essere capaci di agire in società complesse. Ogni tentativo di riportare indietro le lancette dello sviluppo tecnologico porterebbe soltanto disastri”.
Il loro programma punta a migliorare l’istruzione, la protezione dell’ecosistema e a permettere lo sviluppo delle comunità locali. Traguardi che in parte corrispondono agli Obiettivi del Millennio da raggiungere entro il 2015 stabiliti dall’Onu dodici anni fa. Come scrive Stewart Patrick del Council on Foreign Relations, alcuni dei punti dell’agenda della felicità possono però far discutere. Su tutti quello che auspica un “controllo dei media”, sebbene non per limitare la libertà di espressione, ma per evitare che si inducano le persone ad avere bisogni artificiali.
Sulla felicità del governo di Thimphu pesa infine un ulteriore ostacolo. Si tratta della sorte degli oltre 90mila bhutanesi di etnia nepali e religione indù, esiliati dal precedente sovrano per preservare l’omogeneità buddista del regno. Nonostante il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale tre anni fa e le riforme avviate dal giovane re, sono ancora costretti nei campi profughi nepalesi.
di Andrea Pira