Per una volta lo spettacolo non deve continuare. Ed è la prima volta che accade in Italia: muore un giocatore e il carrozzone calcio si ferma. Dalla Serie A in giù, fino ai campionati dilettantistici. Lo ha deciso la Figc, al termine di un balletto di decisioni durato un batter di ciglia. Prima la federazione ha comunicato che sarebbe stato osservato un minuto di silenzio su tutti i campi (opzione scelta dal Coni) per ricordare Piermario Morosini; poi, a distanza di circa mezz’ora, il cambio di rotta. Forte e deciso: stop per rispetto. Per la memoria di un giocatore scomparso sul campo, per ricordare un ragazzo di 26 anni già messo a dura prova dalla scomparsa dei genitori e di un fratello. E il pallone di casa nostra, popolato da scandali e polemiche, per una volta mostra il lato umano. Anzi, scopre di avere una umanità.
Solo due settimane fa non era successo. E guarda caso il ‘campo’ ero lo stesso: l’Adriatico di Pescara. Gli abruzzesi stavano ancora piangendo Franco Mancini, preparatore dei portieri della squadra di Zeman e soprattutto creatura calcistica di quest’ultimo ai tempi di Foggia e di quel sogno chiamato Zemanlandia. Qualcuno non voleva giocare la partita successiva contro il Bari (per uno scherzo del destino, altra squadra di Mancini), altri sì. Si scese in campo come se nulla fosse. I biancazzurri persero, due giorni dopo il tecnico boemo – come suo costume – non le mandò a dire. E criticò la sua società, che si accontentò di chiedere (e ottenere) il solito minuto di raccoglimento. Situazioni diverse, conclusioni diverse. Eppure era sempre una questione di rispetto.
Nelle altre occasioni in cui il calcio si è fermato, invece, è stata una questione di ordine pubblico. Nel recente passato è successo due volte (escluse le sospensioni per la morte del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo – 1995 -, di papa Giovanni Paolo II – 2005 -, per l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 e per gli scioperi dei calciatori, ndr). Due febbraio 2007, 11 novembre dello stesso anno (ma non della stessa stagione sportiva): Filippo Raciti e Gabriele Sandri, poliziotto e tifoso della Lazio. Il primo è morto, anzi è stato ucciso a Catania, due ore la fine del derby tra gli etnei e il Palermo (giocato di venerdì sera per timore di scontri): è stato colpito al torace da un corpo contundente mai individuato. Si conosce, invece, il colpevole: Antonino Speziale, minorenne all’epoca dei fatti e condannato il 21 dicembre 2011 a 8 anni di carcere per omicidio preterintenzionale dalla Corte d’Appello per i minorenni di Catania. Gabriele Sandri, invece, non è morto in uno stadio di calcio, ma è comunque morto di calcio. Stava andando a Milano per seguire la ‘sua’ Lazio con una comitiva di amici. Il gruppo si fermò ad una stazione di servizio nei pressi di Arezzo. Nella stessa area c’erano anche dei tifosi juventini. Scoppiò una rissa. L’agente di polizia stradale Luigi Spaccarotella, in servizio, si trovava dall’altra parte dell’autostrada ed esplose un colpo con la sua arma di ordinanza. Sandri era seduto sul sedile posteriore dell’automobile su cui viaggiava con gli amici. Venne colpito al collo. Morì. Spaccarotella è stato condannato in via definitiva a 9 anni e 4 mesi.
In entrambe le occasioni il calcio si fermò. Per Raciti ‘chiuse’ la Serie A e venne cancellata un’amichevole della nazionale. Era la risposta dello Stato e del sistema alla violenza degli ultras. Questi ultimi, invece, ebbero un ruolo fondamentale nel bloccare il pallone dopo l’omicidio di Gabriele Sandri. Inter-Lazio venne immediatamente rinviata per motivi di ordine pubblico, negli stadi dove si giocò successe di tutto. A Bergamo gli ultras imposero lo stop ai giocatori e l’arbitro fu costretto a decretare la sospensione della gara (stessa cosa a Taranto). Quel giorno il posticipo di Serie A era Roma-Cagliari. Venne rinviato, ma i tifosi di Roma e Lazio misero comunque a ferro e fuoco la città. Due giorni dopo, il presidente della Figc Abete, d’accordo con le Leghe minori, decide di non far disputare la giornata di campionato in programma la domenica successiva in segno di solidarietà per la morte del tifoso e di risposta alla conseguente violenza dei tifosi.
All’epoca i campionati si fermarono quasi in segno di resa. Oggi si chiudono gli stadi per rispetto. Per la scomparsa di un ragazzo, per il dolore di chi lo conosceva. Come a dire: se non si può morire così, allora non si può giocare così. In una giornata come questa, è l’unica buona notizia: lo spettacolo, a volte, sa anche fermarsi.