“Smascherati: la realtà che si cela dietro le Olimpiadi ‘etiche’ di Londra”. Efficace già dal titolo, il lungo reportage di Kathy Marks, corrispondente dal sudest asiatico del quotidiano britannico The Independent, è un eccellente esercizio di verità che mette a nudo le ipocrisie del carrozzone olimpico moderno e delle aziende che lo sponsorizzano. Kathy Marks si è recata in Indonesia, nella città industriale di Tangerang, dove Adidas, partner ufficiale di London 2012, si serve di varie fabbriche in appalto per produrre scarpe e abbigliamento sportivo con il suo marchio. E quello che ha trovato è, nelle sue parole, “una serie di fabbriche dove mancano i basilari diritti: i lavoratori sono sfruttati, lavorano fino a 65 ore la settimana per paghe da miseria, subiscono abusi verbali e fisici, sono costretti a fare straordinari anche non pagati e vengono puniti se non raggiungono gli obiettivi di produzione“.

Un inferno. Un sistema di produzione concentrazionista per permettere che a luglio e ad agosto il mondo possa assistere a quelli che sono stati presentati dagli organizzatori come i giochi olimpici “più etici della storia”. Adidas, che il mese scorso ha presentato la sua collezione disegnata da Stella McCartney per la divisa olimpica degli atleti britannici, prevede profitti di centinaia di milioni di euro solo dalla vendita di prodotti con il suo marchio abbinati all’Olimpiade. Eppure, per la produzione di queste merci, ha scelto di servirsi di lavoratori che vengono pagati meno di 50 centesimi l’ora. Un comunicato stampa della multinazionale tedesca assicura che le condizioni di sfruttamento sono un’eccezione e non la norma, e che gli straordinari degli operai, se ci sono, devono essere ‘volontari’.

Poi, tramite il comitato organizzatore di London 2012 (Locog) fa sapere che sarà condotta un’ulteriore indagine, al termine della quale i risultati saranno resi pubblici. Lo stesso Locog si dice “scioccato” dall’inchiesta di The Independent e annuncia che “agirà al più presto per proteggere i diritti dei lavoratori”. Se non è certo una novità che diverse aziende, da Apple a Nike, utilizzano manodopera a basso costo nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, dove le tutele sindacali sono blande o inesistenti, in questo caso ad andarci di mezzo è anche l’organizzazione di London 2012. Da un punto di vista etico. Perché dietro la maschera di giochi etici e sostenibili si aprono voragini: come il disinteresse totale dimostrato dal comitato organizzatore sulle condizioni dei lavoratori che producono i prodotti ufficiali; o come la scelta di utilizzare come sponsor principale per lo Stadio Olimpico la Dow Chemical, multinazionale statunitense che anni fa ha rilevato la Union Carbide, azienda responsabile del disastro di Bophal in India.

E da un punto di vista formale. Perché come fabbriche in appalto di Adidas, partner ufficiale olimpico, i nove stabilimenti visitati da Kathy Marks sarebbero infatti obbligati ad ottemperare all’Ethical Trading Initiative (ETI): un accordo internazionale firmato e sottoscritto dal Locog e da tutte le aziende partner di London 2012. Il regolamento ETI prevede che agli operai sia corrisposto uno stipendio del 20 per cento superiore al salario minimo di ogni paese, cosa che puntualmente non accade, e che siano tutelati i basilari diritti sindacali. Invece Kathy Marks ha appreso che in queste fabbriche chiunque faccia attività sindacale è licenziato in tronco. Peccato che per Adidas questi licenziamenti risultino essere un semplice ridimensionamento della forza lavoro produttiva. Inoltre nessuno degli operai intervistati è a conoscenza dell’accordo ETI, né tantomeno della possibilità di contattare il Locog per denunciare le condizioni di sfruttamento. Anche perché, spiega The Independent, ancora a febbraio il codice etico era stato tradotto solo in mandarino.

Dal canto suo Adidas fa sapere che conduce annualmente ispezioni in tutte le fabbriche utilizzate in appalto per la produzione. Peccato che, come racconta un sindacalista indonesiano, i lavoratori di queste fabbriche siano avvisati in anticipo delle ispezioni. I luoghi di lavoro sono “ripuliti”, gli operai obbligati a rendersi “presentabili”, se non nascosti in bagno per non essere visti, e comunque a rispondere ai questionari di Adidas come già concordato in precedenza con i quadri della fabbrica. Anna McMullen, portavoce della campagna Playfair 2012 che monitora le condizioni dei lavoratori olimpici, spiega: “Ogni procedura di autocontrollo da parte di Adidas è stata un fallimento. L’azienda si è dimostrata disinteressata alle condizioni dei lavoratori e inadempiente ai minimi standard di controllo pur di raggiungere il massimo profitto”. Adidas Italia, cercata con insistenza da ilfattoquotidiano.it, non si è resa reperibile per alcun commento.

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