Fabrice Muamba e Piermario Morosini. Entrambi calciatori, entrambi centrocampisti, entrambi vittime di arresto cardiaco durante una gara di calcio. Il primo è sopravvissuto e potrà addirittura tornare a giocare. Per il secondo non c’è stato nulla da fare: è morto tra le braccia dei suoi soccorritori. Il tragico epilogo del caso Morosini, però, non è l’unica differenza con l’attacco di cuore che ha colpito Fabrice Muamba. Quest’ultimo ha avuto fortuna. E non solo perché potrà raccontare ciò che gli è capitato: se è vivo, infatti, lo deve al fatto che gioca nel Bolton, in Inghilterra, un Paese all’avanguardia nei soccorsi per attacchi di cuore. Morosini, invece, era un tesserato del Livorno, Serie B, Italia. E procedure di soccorso distanti anni luce da quelle britanniche. Per averne conferma, basta guardare con molta attenzione i video delle due tragedie. Il paragone è impietoso.

E’ il 17 marzo scorso quando, alla fine del primo tempo tra Tottenham e Bolton, Fabrice Muamba si accascia al suolo. Immagini emblematiche: trascorrono sette, otto secondi e il calciatore di origini africane viene soccorso. La prima persona che gli si avvicina sa perfettamente cosa fare: comprende subito che si tratta di un attacco di cuore e lo comunica in tempo reale a bordo campo. Non deve sbracciarsi: chiede l’intervento dei rianimatori direttamente tramite la radiolina di cui è dotato il suo ‘giubbino d’ordinanza’. Trascorrono circa 20 secondi e sul terreno di White Hart Lane sopraggiunge una squadra di otto persone: quattro rianimatori e quattro barellieri (che poi diventeranno sette). I primi si mettono a lavoro: mettono in azione il defibrillatore e lo applicano sul corpo di Muamba.

I giocatori osservano. Disperati, ma mai d’intralcio a chi sta cercando di salvare la vita al loro collega. Sugli spalti dello stadio londinese la gente piange. Sul prato la situazione è difficile: si lotta contro il tempo, eppure tutto si svolge secondo una procedura che fila liscia come l’olio. Se non fosse un paragone blasfemo, per perfezione d’esecuzione si potrebbe paragonare il lavoro dei soccorritori a un pit stop di FormulaUno. Massimo risultato nel minor tempo possibile. Dopo circa quattro minuti e mezzo, Fabrice Muamba è caricato sulla barella e portato all’interno dell’impianto sportivo. Ha rischiato di morire, ma lo potrà raccontare. Di più: grazie all’intervento tempestivo e ben organizzato, tornerà a calcare i campi di calcio. Un miracolo? Può darsi. Ma se così fosse, certamente è stato favorito dall’intervento tempestivo dei rianimatori.

Ciò che accade a Pescara sabato scorso, invece, è semplicemente un altro film rispetto a quello visto a Londra. Eppure il problema alla base è lo stesso: arresto cardiaco di un calciatore. Morosini stramazza al suolo al 31esimo minuto del primo tempo della gara tra gli abruzzesi e il Livorno. Trascorrono otto secondi e sul terreno dello stadio Adriatico c’è già una squadra di soccorritori. Si tratta dello staff medico del Livorno calcio e del massaggiatore del Pescara. Passa qualche altro istante e sopraggiunge il personale del 118 e altra gente che indossa abbigliamento del Pescara calcio. Nessun defibrillatore, nessun massaggio cardiaco. Eppure dopo 30 secondi i soccorritori hanno già inserito la cannula per la ventilazione nella bocca del giovane, che ancora dà segni di vita. Dopo un minuto e 49 secondi si intuisce un principio di massaggio cardiaco, che viene praticato anche successivamente dal medico sociale della squadra abruzzese.

Nel frattempo, intorno a Piermario Morosini e a chi sta cercando di salvarlo si crea un capannello di gente. Tra calciatori che ad ampi gesti chiedono l’intervento dell’ambulanza, addetti allo stadio e personale delle due società, sul prato è il caos più totale. Molti piangono, tutti intuiscono ciò che sta accadendo. Il mezzo di soccorso non arriverà prima di tre minuti e 42 secondi: l’ingresso al terreno di gioco, infatti, è bloccato da un’auto dei vigili urbani. Quando l’ambulanza giunge in campo, Morosini viene messo sulla barella e caricato sull’ambulanza. Nel tragitto, però, il massaggio cardiaco viene sospeso e non c’è traccia di defibrillatore. Per l’esattezza passano sei minuti e 24 secondi da quando il ragazzo inizia a barcollare a quando e trasportato, in ambulanza, fuori dallo stadio. Il 25enne morirà poco dopo in ospedale.

Quelli appena descritti sono due casi limite che, a prescindere dalle singole problematiche degli sfortunati protagonisti, rappresentano modalità diametralmente opposte d’intervento. Ordine, organizzazione e velocità d’intervento a Londra; confusione e approssimazione a Pescara. Di simile c’è solo la tempestività dell’ingresso in campo del primo soccorritore. Nessuno può dire che l’epilogo sarebbe stato diverso. Ma quell’unica analogia è troppo poco per sperare in risultati paragonabili alla perfetta macchina dei soccorsi britannica.

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