“Scordatevi il posto fisso”, moraleggiava pochi giorni fa il presidente di Mediobanca, Renato Pagliaro. Nell’occasione si è dimenticato di spiegare all’attonita platea di liceali milanesi come mai nel 2011 la sobria banca fondata da Enrico Cuccia ha premiato l’amministratore delegato Alberto Nagel con 384 mila euro una tantum per i vent’anni di anzianità aziendale. Pagliaro e Nagel certo non sarebbero i testimonial più adatti per convincere i lavoratori italiani a non restare avvinti come l’edera al posto fisso, mentre sono ottimi per dimostrare che quanto a coerenza tra il dire e il fare i grandi manager italiani non sono migliori dei politici.
E a proposito di costi della politica, guardate la tabella che pubblichiamo in questa pagina: sono 50 tra i maggiori stipendi di top manager, ricavati dai bilanci 2011 pubblicati finora (mancano ancora all’appello colossi come Intesa Sanpaolo, Telecom Italia e Finmeccanica). Il totale delle somme incassate da questi 50 superuomini l’anno scorso è di oltre 134 milioni, cifra vicina ai 170 milioni che i partiti aspettano di incassare con la rata annuale del prossimo luglio. Nel complesso i top manager delle società quotate in Borsa costano almeno il triplo, una cifra vicina ai 500 milioni: in un anno quanto tutti i partiti prendono di rimborso elettorale per le politiche in 5 anni. La classe dirigente dell’economia italiana costa dunque cinque volte il sistema dei partiti: con risultati cinque volte migliori? A giudicare dall’andamento delle società e dalla marea montante della disoccupazione non si direbbe.
Tra i 50 manager della lista, ben 18 sono azionisti di controllo delle società che amministrano, o loro familiari. A cominciare dal recordman, Marco Tronchetti Provera. E’ in questo modo che i nostri imprenditori si mettono al riparo dal rischio d’impresa, che volentieri scaricano sui dipendenti, destinati a perdere il lavoro quando le cose vanno male (“è il mercato bellezza”). Se l’azienda va male e non distribuisce dividendi agli azionisti, i padroni si garantiscono il reddito assegnando a se stessi e ai propri cari sontuosi stipendi fissi. Tipico il caso della famiglia Ligresti: i figli del capostipite Salvatore (Jonella, Giulia e Paolo) assistono al disastro del gruppo assicurativo Fonsai serenamente assisi sui loro stipendi milionari. Mirabile il caso dei fratelli Gianmarco e Massimo Moratti: la loro azienda, la Saras, ha chiuso il 2011 in perdita come il 2010, ma il presidente e l’amministratore delegato continuano a prendersi il loro stipendio invariabile da anni: 2 milioni e 536 mila euro a testa. Posto fisso e stipendio fisso, milionario, mentre a chi lavora nella loro raffineria di Sarroch, in provincia di Cagliari, con contratti precari da mille euro al mese se va bene si predica la flessibilità e “che noia il posto fisso”.
Fin qui i privati. Nell’anno della bufera del debito pubblico e dei tagli alla spesa sociale, proprio i manager di due grandi aziende di Stato come Eni ed Enel hanno festeggiato un aumento in busta paga (leggi). Come il Fatto Quotidiano ha già raccontato in un articolo dell’ 8 aprile scorso, Paolo Scaroni, il gran capo del cane a sei zampe, l’anno scorso ha ricevuto compensi per un totale di oltre 5,8 milioni, il 30 per cento in più del 2010, mentre suo collega Fulvio Conti, amministratore delegato dell’azienda elettrica, è arrivato a 4,37 milioni, con un balzo del 40 per cento circa rispetto a quanto, dedotte alcune voci di competenza dell’anno precedente, gli era stato accordato nel 2010.
Un bel salto, non c’è che dire. Soprattutto se si considera che i due gruppi energetici nel 2011 hanno fatto segnare risultati non proprio brillanti. Per l’Eni i profitti sono aumentati solo del 9 per cento rispetto all’esercizio precedente, mentre l’Enel ha visto calare gli utili del 5 per cento. Fa un gran balzo anche il compenso di Tronchetti Provera, che passa da 6,4 a 22 milioni di euro. L’aumento, così come quello del direttore generale Francesco Gori (10,5 milioni di stipendio), si spiega in gran parte con un superbonus di oltre 18 milioni di euro. In pratica il numero uno della Pirelli ha incassato nel corso del 2011 le quote di incentivo relative anche ai due anni precedenti. Va detto che dal 2009 al 2011 i risultati del gruppo del cinturato sono notevolmente migliorati. Il progresso si spiega in parte con la separazione dal business immobiliare, fonte di forti perdite negli esercizi passati, ma anche le attività industriali hanno ricominciato a produrre utili importanti.
Lo stesso non si può dire della Fondiaria assicurazioni, che nel 2011 ha passato ogni sorta di guai, fino ad arrivare, il 17 aprile, alla richiesta di fallimento avanzata dei magistrati milanesi per Imco e Sinergia, quest’ultima società “cassaforte” della famiglia Ligresti (leggi). Questo però non ha impedito alla presidente Jonella di ricevere un compenso di oltre 2,5 milioni. Un compenso addirittura superiore a quello di Giovanni Perissinotto, amministratore delegato di una compagnia come le Generali che continua a macinare utili. A prima vista si direbbe che perfino il gran capo della Fiat, Sergio Marchionne sia stato costretto a tirare la cinghia (si fa per dire) nel 2011. I suoi compensi cash sono infatti calati di quasi un milione, da 3,4 a 2,4 milioni. E’ solo un’impressione, perché gran parte del compenso del manager del Lingotto viene pagato in azioni Fiat. In gergo si chiamano stock grant e nei primi mesi del 2012 Marchionne ha ricevuto titoli per un valore di circa 50 milioni. Regali esclusi, in casa Fiat lo stipendio del numero uno è stato superato anche da un altro top manager. Il presidente Luca Cordero di Montezemolo nel 2011 ha portato a casa 5, 5 milioni di euro, più del doppio rispetto a Marchionne. Sono i benefit del cavallino rampante.
di Vittorio Malagutti e Giorgio Meletti
da Il Fatto Quotidiano del 13 aprile 2012