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Bologna, Paolo Conte in concerto. Due serate sotto le stelle del jazz

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Cinquantennale o quasi quarantennale? Comunque la mettano i biografi dell’avvocato di Asti, il 2012 per Paolo Conte è una data simbolica di notevole importanza. Per chi indica quasi quattro decadi di attività parte dall’album omonimo Paolo Conte del 1974, dove ci sono La giarrettiera rosa e Onda su onda. Per chi invece ne conta cinque, ci si avventura direttamente  nel debutto discografico del nostro datato 1962, prima ancora che Conte scrivesse le note di Azzurro e Insieme a te non ci sto più, quando con il gruppo Paul Conte Quartet (il fratello Giorgio Conte era alla batteria) incise un inosservato Ep per la Rca Italiana.

Di tempo e di mode ne sono passate da allora e Paolo Conte da artista quasi folk pop, tutto fisarmoniche e tonalità basse del pianoforte, si è trasformato in una star elitaria dell’olimpo dei jazz club parigini ed europei tutti. Una capacità mimetica quella di Conte, nell’assorbire le variabili di un genere che ha vissuto di revival e nostalgia, come di invenzioni elettroniche da giovinastri. L’autore di Bartali ha rimescolato il tutto e le sue poesie in musica nell’accogliere comunque l’asetticità del suono contemporaneo non dimenticano mai le origini zeppe di swing.

Dopo il tour nelle principali capitali europee dell’estate 2011, il concerto doppio del 23 e 24 aprile al Teatro Europauditorium di Bologna vuole bissare il brillante successo del tour Psiche nel 2009, per poi continuare nella tournée primaverile 2012 dopo alcune date italiane in Germania.

Conte si concentrerà soprattutto sull’ultimo album Nelson, un lavoro che liricamente e musicalmente richiama le canzoni migliori dell’artista, con le immancabili citazioni e melodie d’altri tempi, affollato di personaggi pittoreschi, oggetti e espressioni in disuso. Disco che affonda nei ricordi anni cinquanta con la trascinante canzone “L’orchestrina”, scene di un dancing d’epoca: “Mi illudo che il testo non sarebbe dispiaciuto al mondo di Federico Fellini”, scrive il cantautore nelle sue note. Ma “Nelson” è anche un album sui generis, dove il maestro interpreta le storie della sua geografia sentimentale, costellate di letteratura, cinema, pittura, in più lingue: inglese, francese, spagnolo, napoletano, italiano.

I segreti del maestro sono frasi preziose, lui che come uno stralunato enigmista non si concede a interviste che vadano oltre la superficie delle parole, distilla perle da intenditori sulla creazione dei suoi capolavori (“Rare volte scrivo di getto, ma in ogni caso ci lavoro su con matita e molta gomma”), sugli album più belli di musica da consigliare (“le incisioni di Louis Armstrong con i suoi Hot Five (1925-27); Art Tatum, le registrazioni fra il 1934 e il 1937; l’opera pianistica di César Franck”), l’adorazione per Verdi e il concerto della vita con Arturo Benedetti Michelangeli a Genova nei primi anni sessanta.

Sul palco ad accompagnarlo la solita grande band composta da Nunzio Barbieri (chitarra e chitarra elettrica), Luca Enipeo (chitarra), Lucio Caliendo (oboe, fagotto, percussioni, tastiera), Claudio Chiara (sassofoni, flauto, fisarmonica, basso, tastiere), Daniele Dall’Omo (chitarra), Daniele Di Gregorio (batteria, marimba, pianoforte), Massimo Pitzianti (fisarmonica, bandoneon, clarinetto, sassofono, pianoforte, tastiere), Piergiorgio Rosso (violino), Jino Touche (contrabasso, chitarra) e Luca Velotti (sassofoni, clarinetto).

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