Quando telefoni a casa Uva per sapere come è stata accolta la sentenza, senti urla di gioia di donne emozionate. Una reazione che non ti spieghi, se non conosci bene il caso della morte di Giuseppe. Perché ieri il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Varese, Orazio Muscato, ha assolto l’unico imputato di quel procedimento, lo psichiatra Carlo Fraticelli, “perché il fatto non sussiste”. A quattro anni dalla morte di Uva, dunque, la giustizia italiana non è stata ancora in grado di indicare il nome di un colpevole, di spiegare alla sorella Lucia chi ha ucciso suo fratello e perché. Eppure è proprio Lucia a urlare al telefono: “Ce l’abbiamo fatta!”. Vale allora la pena di ripercorrere questo strano processo per capire cosa è accaduto.
L’artigiano Giuseppe Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 assieme all’amico Alberto Biggiogero perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, Uva venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio Biggiogero a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio.
Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, dopo aver trascorso quasi tre ore nelle mani dello Stato. Alle 10,30 di quella stessa mattina l’artigiano morì, con il corpo martoriato. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia (secondo la famiglia la perizia eseguita qualche mese fa dopo la riesumazione del cadavere dimostrerebbe un abuso sessuale). “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”.
Eppure tutto questo, insieme col terribile sospetto che quelle urla sentite da Biggiogero e quelle lesioni fossero davvero la reazione a un pestaggio, non è finito in Tribunale. Davanti ai giudici sono arrivati tre medici: Matteo Catenazzi, colui che intervenne in caserma, prosciolto il primo dicembre 2010, ma la cui posizione è tornata in udienza preliminare dopo il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura; Enrica Finazzi, la dottoressa che parlò per un’ora con Uva (e alla quale Uva raccontò di essere stato picchiato dai carabinieri), per la quale l’udienza preliminare si celebrerà in ottobre; e lo psichiatra Carlo Fraticelli, assolto ieri dall’accusa di omicidio colposo per aver somministrato al paziente un farmaco sbagliato.
Fin qui, dunque, nessun colpevole. Ma c’è qualcosa nel dispositivo della sentenza che ha fatto gridare a Lucia Uva “ce l’abbiamo fatta”. Il Gup Muscato ha infatti ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. Si torni a indagare, ha detto il giudice, accogliendo in pieno le richieste della parte civile, ma stavolta lo si faccia su quelle ore di buio che hanno preceduto il Trattamento sanitario obbligatorio disposto quella notte dal sindaco di Varese, Attilio Fontana. “Me l’aspettavo, certo – spiega Lucia –, abbiamo perso quattro anni a piangere e a spendere soldi per fare un processo a un medico che non c’entrava nulla. Ma non poteva andare diversamente. Bisogna capire cosa è accaduto in quella caserma”. Già, ma stavolta chi condurrà le indagini? In tutti questi anni ci sono stati pesanti attriti in aula proprio tra il pm Agostino Abate (che aveva chiesto la condanna di Fraticelli a un anno di reclusione) e Fabio Anselmo, legale della famiglia Uva. Anche ieri, quando il Gup si è ritirato in camera di consiglio, molti hanno ascoltato le parole che l’accusa ha lanciato contro la parte civile. In due occasioni, tra l’altro, Abate aveva fatto allontanare dall’aula Lucia Uva, Patrizia Aldrovandi e Ilaria Cucchi. Anche Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”, insinua un dubbio di opportunità: “La sentenza del Tribunale è un’ulteriore conferma dell’assoluta incompatibilità tra l’urgenza di arrivare alla verità sulla morte di Uva e l’attuale figura di pubblico ministero che ha condotto finora le indagini”.
Le tre donne, ormai, hanno fatto rete, accomunate dalla cattiva sorte di aver perso un figlio o un fratello per mano dello Stato. Patrizia era la mamma di Federico, ucciso dalla polizia a Ferrara. Ilaria era la sorella di Stefano, morto a Roma dopo un arresto per droga. A loro si è unita negli ultimi tempi anche Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto a Milano durante un fermo di polizia. Ieri erano tutte insieme, prima davanti al Tribunale di Varese a chiedere giustizia, poi a casa di Lucia a festeggiare per una morte che non ha ancora un colpevole. Ma che, se ieri fosse andata diversamente, ne avrebbe avuto uno sbagliato.