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Può una borsa costare 32mila euro?

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La notizia è passata sotto gli occhi di tutti perché è di quelle curiose. Nella boutique Hermès di via Sant’Andrea a Milano, una turista giapponese acquistava una borsa da 1920 euro; alla cassa però sbaglia sacchetto e si porta via una pregiatissima borsa Birkin di coccodrillo e platino del valore di 32mila euro che una seconda cliente stava a sua volta pagando. Panico! I commessi si precipitano in strada, ma della signora nessuna traccia. Parte la denuncia, le ricerche della polizia, finchè incrociando i dati della carta di credito viene trovata nell’albergo che la ospitava. 

Ora, la storia è sicuramente vera. Con i sacchetti identici, le corse, le denunce. Ma è un peccato, perché se fosse stata partorita da un’agenzia di comunicazione non avremmo potuto che definirla geniale, o comunque riuscitissima. Fateci caso: il marchio che campeggia per un giorno quasi su tutti i giornali (anzi grazie al lieto fine, la notizia del ritrovamento, per ben due giorni). Una esposizione che ha un valore enorme. E guardiamo poi il contenuto della notizia: ne risulta che in un giorno qualunque, anche in questi burrascosi periodi, può capitare che si presentino alla cassa della boutique due clienti che stanno spendendo in totale 34mila euro per due borse. Due borse!

La storia è sicuramente vera. Come è vero che Hermès è uno storico marchio di altissima gamma e con un’affezionatissima clientela in tutto il mondo. Ma poniamo che un genio del marketing voglia far passare per normale e ordinario l’acquisto di una borsa da 2mila euro, magari nell’ambito dei mercati asiatici, cosa c’è di più efficace dell’iperquotare un prodotto top come la Birkin, fino all’astronomica cifra di 32mila euro, e mostrare che questo non turba l’agiata cliente anonima in giro per shopping nel quadrilatero della moda?

Dovremmo cominciare a pensare che l’impatto di queste notizie sul grande pubblico è devastante. Giocare con l’ignoranza dei consumatori su quale sia il valore effettivo di un prodotto – come in questo caso il “prodotto borsa” – stimolandoli a qualunque sacrificio pur di appagare certe velleità legate all’immagine, è una pratica che dovrebbe appartenere al passato. A quel passato che ci sta costando un debito di 1935 miliardi e che ci ha condotto sull’orlo della bancarotta.

La domanda su quanto la speculazione legata al carisma delle grandi griffe abbia contribuito a condurci fin qui, non deve essere più un tabù. L’Italia deve moltissimo al settore del tessile, è una nostra eccellenza che va difesa e promossa. Ma se continuiamo a ritenere plausibile e soprattutto divulgabile che una borsa, per quanto preziosa e griffata, possa costare 32mila euro, cioè pari a due anni di stipendio di un operaio, allora ci meritiamo lo spread

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