Nomi “pesanti” quelli usciti fuori dalle testimonianze dinanzi al Tribunale di Palermo dell’ex pm Alessandra Camassa, oggi presidente di sezione al Tribunale di Trapani e di un altro ex pubblico ministero, l’odierno assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo. Nomi “pesanti” come quello di un prefetto, Angelo “Ninni” Sinesio che dall’alto commissariato antimafia ha fatto il salto sino oggi a esere prefetto, ex capo della segreteria tecnica del ministro Cancellieri, oggi commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria.
Secondo quanto emerso dal processo lui potrebbe essere un tassello importante di quel periodo siciliano quando la mafia faceva stragi e intesseva dialogo con lo Stato. Il processo è quello che vede imputati due ufficiali dei carabinieri, uomini di punta del Ros, il generale Mori e il colonnello Obinu. Il dibattimento è parecchio conosciuto, è quello che comincia da una mancata cattura del capo mafia Bernardo Provenzano. Il giudice Camassa è stata sentita dapprima nella istruttoria che riguarda proprio la “trattativa”, le sue dichiarazioni sono inserite nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Procura di Caltanissetta che ha riaperto l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, ma in quelle dichiarazioni sono contenute anche circostanze che all’epoca potevano sembrare normali, ma lette oggi, quando si ha ormai contezza dell’esistenza di depistaggi e “tradimenti”, presentano incredibili prospettive.
E uno di questi “tradimenti” Paolo Borsellino lo scoprì e ne parlò proprio con la Camassa. “A fine giugno del 1992 io e il collega Massimo Russo avemmo un incontro con Borsellino. Era un dialogo normale, si parlava di indagini. A un certo punto lui si alzò, si stese sul divano e cominciò a lacrimare e disse: non posso credere che un amico mi abbia tradito'”. “Ebbi la sensazione netta – ha proseguito- che avesse ricevuto da pochissimo una notizia e che fosse ancora sconvolto. Tanto da sfogarsi con le prime persone entrate nella sua stanza”.
Di più dalla bocca di Borsellino non uscì, la Camassa ha descritto l’atmosfera, “c’era una sorta di imbarazzo, ed ero così imbarazzata che quasi cambiai discorso. Pensai a uno sfogo personale e non volli essere invadente e però – ha aggiunto – se fossi stata chiamata a testimoniare prima probabilmente l’avrei detto”. Cosa significa? Significa che per le indagini su via d’Amelio le testimonianze di chi era a stretto contatto con Paolo Borsellino, che lavorava con il procuratore aggiunto della Dda di Palermo, non vennero ritenute necessarie e nessuno pensò a raccoglierle.
“Se fosse stato fatto – ha proseguito il giudice Camassa – quell’episodio l’avrei certamente rievocato”. In quel tempo c’erano altri che semmai chiedevano notizie sul lavoro che Paolo Borsellino stava facendo nei giorni in cui “una regia raffinata” – così sicuramente sarebbe giusto chiamarla – metteva a punto la strage per ucciderlo. E il giudice Alessandra Camassa ha così ricordato degli incontri con uno dei responsabili dell’Alto Commissariato antimafia, oggi prefetto, Angelo Sinesio che spesso sarebbe andato a bussare alla sua porta. “Dopo la strage di via D’Amelio mi chiamò per chiedermi di incontrarci e nel corso di un incontro mi fece un sacco di domande sulle ultime indagini di Borsellino. Era insistente, voleva sapere se erano venuti fuori elementi sull’imprenditore agrigentino Salamone e sul ministro Mannino”. Nel processo poi si è parlato dell’ex maresciallo Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino. “Più volte – ha riferito il giudice Camassa – l’ultima il 4 luglio del 1992, in occasione della cerimonia di saluto a Marsala – il maresciallo Canale mi disse che Borsellino a suo avviso si fidava troppo dei vertici del Ros”.