Documenti di fonte governativa tedesca appena resi noti rivelano che molti in seno alla Cancelleria di Helmut Kohl nutrivano seri dubbi sulla moneta comune europea quando nel 1998 si prese la decisione di introdurla. Helmut Kohl disse che tutti avrebbero avvertito il “peso della storia, la decisione di introdurre la moneta unica”. Il 2 maggio 1998, a Bruxelles, Kohl e i suoi colleghi presero una decisione di enorme importanza. Undici Paesi – tra i quali la Germania, la Francia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Italia – sarebbero entrati a far parte della nuova moneta unica europea.
Il peso della storia A 14 anni di distanza “il peso della storia” si fa sentire più che mai. Per ragioni politiche furono accolti nell’euro Paesi che all’epoca non erano pronti. Il governo tedesco ha messo a disposizione centinaia di documenti che vanno dal 1994 al 1998 e riguardano l’introduzione dell’euro e la decisione di accogliere l’Italia nell’Eurozona. A leggerli si capisce che l’Italia non avrebbe dovuto essere accolta nell’Eurozona. La decisione di accoglierla si fondò esclusivamente su considerazioni politiche. La decisione creò un precedente per un errore più grave due anni dopo: far entrare la Grecia. Ma Kohl preferì dimostrare che la Germania, anche dopo la riunificazione, rimaneva profondamente europeista, definiva la moneta comune “una garanzia di pace”.
Operazione Auto-inganno I documenti dimostrano che Berlino conosceva bene il reale stato dei conti pubblici italiani. L’operazione “auto-inganno” ebbe inizio nel 1991 a Maastricht. I capi di Stato e di governo europei si erano riuniti per prendere la decisione del secolo: l’introduzione dell’euro entro il 1999. Per garantire la stabilità della nuova moneta furono concordati severissimi criteri di accesso. La Commissione europea e l’Istituto monetario europeo avevano compiti di controllo e i leader europei dovevano prendere una decisione definitiva nella primavera del 1998. L’Italia raggiunse, almeno sulla carta, i parametri alla vigilia della scadenza. Ma esponenti della Cancelleria tedesca a Bonn avevano qualche dubbio. Nel febbraio del 1997, dopo un vertice italo-tedesco, un funzionario osservò che il governo di Roma aveva dichiarato, “con grande sorpresa dei tedeschi”, che il deficit di bilancio era inferiore a quanto indicato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dall’Ocse (Ocse). Ma poco prima del vertice un funzionario tedesco d’alto grado aveva scritto in un promemoria che secondo le nuove regole per il calcolo degli interessi, la riduzione del deficit italiano era stata dello 0,26 per cento appena. Pochi mesi dopo Jürgen Stark, sottosegretario alle Finanze, riferì che i governi di Italia e Belgio avevano “esercitato pressioni sui governatori delle rispettive Banche centrali violando l’impegno di autonomia degli istituti centrali” per evitare che gli ispettori dell’Ime non affrontassero “con un approccio eccessivamente critico” il tema del debito sovrano dei due Paesi.
I dubbi sui tagli A Maastricht, Kohl e gli altri leader avevano fissato al 60 per cento del Pil il tetto massimo del debito “a meno che il rapporto non evidenzi un sufficiente grado di decremento avvicinandosi rapidamente al valore di riferimento”. Il debito italiano era pari al doppio e tra il 1994 e il 1997 il debito era diminuito di appena tre punti. “Un debito del 120 per cento significava che questo criterio di convergenza non poteva essere soddisfatto – dice Stark oggi – Ma la domanda politicamente rilevante era: possiamo lasciare fuori dall’euro paesi fondatori della Cee?”. “Fino al 1997 inoltrato noi del ministero delle Finanze non credevamo che l’Italia sarebbe riuscita a soddisfare i criteri di convergenza”, dice Klaus Regling, all’epoca direttore generale delle Relazioni finanziarie e internazionali del ministero delle Finanze. Oggi Regling presiede il Fondo Salva Stati EFSF. Il 3 febbraio 1997, il ministro tedesco delle Finanze osservava che a Roma “erano state completamente tralasciate misure strutturali di taglio della spesa pubblica per evitare ricadute negative sul consenso sociale”. Il 22 aprile in un appunto del portavoce della Cancelleria si affermava che era “quasi impossibile” che “l’Italia potesse soddisfare i parametri”. Il 5 giugno il dipartimento dell’economia della Cancelleria riferiva che le prospettive di crescita dell’Italia erano “modeste” e che i progressi compiuti in materia di consolidamento dei conti pubblici erano “sopravvaluta-ti”.
L’inganno di Kohl I documenti appena resi noti inducono a ritenere che Kohl abbia ingannato sia l’opinione pubblica che la Corte costituzionale tedesca. All’epoca quattro professori si erano rivolti alla Corte costituzionale per impedire l’introduzione dell’euro. La richiesta era “chiaramente infondata”, dichiarò il governo dinanzi alla Corte sostenendo che sarebbe stata giustificata solo nel caso di un “sostanziale scostamento” rispetto ai criteri di Maastricht e che tale scostamento “non c’era né era prevedibile”. Davvero? Dopo un incontro tra il Cancelliere, il ministro delle Finanze Theo Waigel e il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, il direttore della Divisione per l’economia della Cancelleria, Sighart Nehring, osservò verso la metà di marzo del 1998 che “l’elevatissimo debito” dell’Italia poneva “enormi rischi”. Ma il promemoria non ebbe ripercussioni. I funzionari di Bonn affidavano le loro speranze a due uomini che avevano iniziato a rimettere le cose a posto in Italia: il primo ministro Romano Prodi e il suo ascetico ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, già governatore per molti anni della Banca d’Italia. “Senza Ciampi l’Italia non sarebbe mai riuscita ad entrare nell’Eurozona”, dice l’ex ministro delle Finanze Waigel. Ciampi e Prodi ottennero risultati relativamente positivi rispetto ai loro predecessori. Grazie alle riforme e ai tagli di spesa riuscirono a ridurre il ricorso al credito e ad abbassare il tasso di inflazione. Ma il paese aveva problemi ben maggiori e il governo ne era consapevole. Infatti gli italiani nel 1997 proposero in due circostanze di rinviare il varo dell’euro. Ma i tedeschi non accettarono. L’ex consigliere di Kohl, Bitterlich, ricorda che i tedeschi avevano affidato a Ciampi le loro speranze: “Tutti lo ritenevano il garante dell’Italia e in un certo senso pensavano che sarebbe riuscito a sistemare le cose”.
Equilibrio creativo È anche chiaro, ovviamente, che Kohl era deciso ad arrivare all’unione monetaria prima delle elezioni del 1998. La sua rielezione era a rischio e il suo sfidante, il socialdemocratico Schroeder, era noto per essere un euroscettico. Alla fine gli italiani riuscirono a soddisfare, almeno formalmente, i criteri di Maastricht grazie a qualche trucco e ad alcune circostanze fortunate. Il paese trasse vantaggio da tassi di interesse bassissimi e Ciampi si rivelò un creativo giocoliere della finanza pubblica. Introdusse, ad esempio, l’Eurotassa e ideò un intelligente trucco contabile consistente nel vendere le riserve auree del paese alla Banca centrale tassando i profitti. Il deficit di bilancio di conseguenza diminuì. Anche se in ultima analisi Eurostat non avallò questi stratagemmi, simbolicamente si ebbe la conferma di quello che era il fondamentale problema italiano: il bilancio non era in equilibrio, ma gli effetti speciali avevano prodotto conseguenze positive.
“Ingresso inaccettabile” Questa realtà non sfuggì ai funzionari della Cancelleria. In un promemoria datato 19 gennaio 1998, Bitterlich sottolineava che la riduzione del deficit si fondava essenzialmente sull’Eurotassa e sui tassi di interesse che erano diminuiti molto più che in altri Paesi. Poche settimane dopo, alcuni rappresentanti del governo olandese si misero in contatto con la Cancelleria e chiesero un “incontro riservato”. Il segretario generale del primo ministro olandese e il sottosegretario alle Finanze volevano esercitare pressioni su Roma. “Senza misure aggiuntive da parte dell’Italia tali da dare prova della sostenibilità sul lungo periodo del consolidamento, allo stato attuale l’ingresso dell’Italia nell’Eurozona è inaccettabile”, sostenevano i funzionari olandesi. Kohl, temendo che fallisse il suo più importante progetto dopo la riunificazione, respinse queste obiezioni. Disse agli olandesi che il governo francese lo aveva avvertito che la Francia, in caso di esclusione dell’Italia, si sarebbe ritirata dall’unione monetaria.
La pausa dopo lo sforzo Nella primavera del 1998, Eurostat certificò che gli italiani erano in linea con i criteri in materia di deficit fissati dal Trattato di Maastricht. Ciò significava che “non c’era più ragione di impedire l’ingresso dell’Italia nell’euro”, ricorda Waigel. Dopo che questo ostacolo era stato superato, “gli italiani potevano rivendicare il diritto giuridico di entrare nell’Eurozona fin dall’inizio”, ricorda oggi Regling. Tre mesi dopo, quando l’Italia si era assicurata l’ingresso nell’euro, il problema venne a galla. Il 10 luglio 1998 l’ambasciatore Kastrup disse ad alcuni funzionari di Bonn che l’Italia era in fase di “stagnazione” e che il governo italiano “si stava prendendo una pausa dopo lo sforzo straordinario fatto per soddisfare i criteri di Maastricht”. La pausa divenne lo status quo.
di Sven Boll, Christian Reiermann, Michael Sauga e Klaus Wiegrefe
© 2012, Der Spiegel – Distribuito da The New York Times Syndicate. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto