Un’urna di marmo bianco e rosso, larga un metro e alta non più di cinquanta centimetri, con inciso nome, cognome, data di nascita e di morte. Sono racchiusi qui dentro gli ultimi resti di Placido Rizzotto, il sindacalista della Cgil assassinato dalla mafia il 10 marzo del 1948: un feretro minimo per il funerale di Stato più in ritardo della storia. In una Corleone blindatissima per la presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano, si è finalmente potuto scrivere l’ultimo capitolo della tormentata vicenda del sindacalista ammazzato da Luciano Liggio con tre colpi di pistola. Da allora sono dovuti passare ben sessantaquattro anni prima che Rizzotto potesse avere una degna sepoltura.
“A Corleone i mafiosi hanno tutti una tomba nel cimitero, per Placido Rizzotto però non c’è ancora nessun loculo” aveva accusato a più riprese il nipote, omonimo del sindacalista assassinato, di cui non si erano mai identificati i resti. Due mesi fa però la polizia scientifica aveva comparato il dna del padre di Rizzotto (morto anni fa e riesumato per l’occasione) con quello estratto da alcune ossa recuperate dalla foiba di Rocca Busambra, il precipizio dove Liggio aveva probabilmente gettato il cadavere della sua vittima. L’esito delle analisi non aveva lasciato dubbi: quei resti erano di Placido Rizzotto. Il consiglio dei Ministri aveva quindi accolto la proposta per i funerali di Stato a cui oggi è voluto intervenire personalmente Napolitano, per consegnare la medaglia d’oro al valor civile alla sorella di Rizzotto, Giuseppa, 81enne.
Alle esequie di Stato, decise dal governo due mesi fa su proposta del presidente del Consiglio Mario Monti dopo un appello di molte personalità politiche e della società civile, hanno partecipato a nome del governo i ministri dell’Interno e della Difesa Anna Maria Cancellieri e Giampaolo Di Paola, oltre al procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, il prefetto di Palermo Umberto Postiglione, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Numerose le autorità e i rappresentanti politici tra cui Walter Veltroni, Rosy Bindi e una folta rappresentanza della Cgil: oltre al segretario Susanna Camusso, anche il suo predecessore Guglielmo Epifani.
I cittadini di Corleone, per troppo tempo associati soltanto a boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano, hanno quindi riempito la basilica di San Martino, in cui era attesa la presenza della segretaria della Cgil Susanna Camusso. “I funerali di Stato rappresentano una nuova stagione – ha detto la massima dirigente del sindacato durante l’orazione funebre – Oggi chiederemo che si faccia giustizia, anche se molti protagonisti sono morti vogliamo che si riaprano i processi per i tanti sindacalisti assassinati dalla mafia”.
Quella del sindacalista corleonese è una tragica storia in bianco e nero, fatta di impunità, violenza mafiosa e battaglie contadine. Dopo essere stato partigiano socialista al nord, Rizzotto tornò a Corleone per dirigere la camera del lavoro. Dopo la guerra iniziò a guidare i mezzadri verso la stagione dell’ occupazione delle terre, che dalle parti di Corleone erano tutte o quasi degli amici latifondisti di don Michele Navarra, medico condotto e boss del paese. L’azione di Rizzotto danneggiava evidentemente gl’interessi dei fedelissimi di Navarra, che per spezzare l’energica azione contadina diede ordini precisi al giovane Liggio, che era ancora il suo killer più fidato (in seguito diverrà il suo assassino). La sera del 10 marzo 1948 Liggio attese Rizzotto fuori dalla camera del lavoro, attirandolo nelle campagne intorno al centro abitato grazie all’aiuto di un complice; favorito dal buio il killer sparò quindi tre colpi di pistola, gettando poi il cadavere nel precipizio di Rocca Busambra.
Le prime indagini sul caso furono affidate a Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca giovane tenente dei carabinieri, che mandò a processo gli esecutori dell’assassinio di Rizzotto. Il tribunale però ritenne di non avere prove sufficienti per condannarli e da quel momento la vicenda del sindacalista socialista fu complita dall’oblio. L’unico testimone del delitto era stato il piccolo pastorello Giuseppe Letizia, assassinato poi dal boss Navarra, che con la scusa di vaccinarlo lo uccise con un’iniezione letale. “Placido Rizzotto ha continuato a parlare in questi anni, lo ha fatto attraverso il piccolo Giuseppe Letizia, unico testimone del delitto, attraverso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, attraverso Pio La Torre” ha commentato il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. “Ciao Zio tu hai vinto, oggi tocca a noi vincere – ha detto invece il nipote di Rizzotto, Placido – Tocca a noi chiedere ottenere che su casi come la strage di Portella della Ginestra, accaduta appena un anno prima della tua morte, sia finalmente rimosso il segreto di Stato”.
Nonostante la sacralità del momento però non è mancata la polemica. Ad innescarla Riccardo Nencini, segretario del Psi (Rizzotto era socialista), che ha messo sotto accusa l’arcivescovo di Monreale Salvatore Di Cristina, “reo” di non aver mai citato la mafia durante la celebrazione delle esequie. “E’ stata la mafia ad uccidere Placido Rizzotto. Non dicendolo, lo uccideremo due volte. Monsignor Di Cristina, durante le esequie, non ha mai citato la parola mafia. Rizzotto morì per la libertà e giustizia, sprezzando un clima mafioso di omertà, per difendere i più deboli. Restituiamogli l’onore e la dignità”. All’inizio della celebrazione la platea aveva rumoreggiato soprattutto per il fatto che monsignor Di Cristina aveva sbagliato per due volte di seguito il cognome di Rizzotto, chiamandolo Rizzuto.