Il politico non lo fa più. Ma di quel mondo ha conservato conoscenze e rapporti. E dunque li sfrutta a favore di alcuni imprenditori. In cambio ottiene “regalie”. Non tangenti si badi. Solo doni che come tali stanno dentro alla partita doppia dei giochi di lobby. Ecco appunto: un lobbista. O meglio ancora: “Chi, oramai dismessa ogni carica politica, si ingegna di sfruttare le proprie conoscenze acquisite nel tempo”. C’è condotta illecita? Non in Italia dove questi “comportamenti appartengono al concetto di traffico di influenze che non riveste rilievo penale alcuno”. Così, per dare un motivo giuridico al reato, i magistrati sono costretti a imputare la corruzione. Ma quando questa scivola fuori dal contesto, ecco che il castello crolla, lasciando spazio a un’unica soluzione: assoluzione perché il fatto non sussiste.
Naturalmente il cortocircuito è evidente. Per sanarlo il governo Monti ha pronto un nuovo ddl sulla corruzione. Il testo del ministro Paola Severino, osteggiato e frenato in Parlamento, prevede, infatti, l’introduzione del reato di traffico d’influenze, portando così l’Italia a livello di tutti gli altri paesi europei.
Nell’attesa, uno come Antonio Oliverio, calabrese di Pedice, ex assessore provinciale di Milano, prima casacca Udc, poi Pdl, passando dal centrosinistra di Filippo Penati al centrodestra di Guido Podestà, esce indenne dal maxiprocesso sulla ‘ndrangheta in Lombardia. E questo nonostante i magistrati antimafia abbiano accertato e certificato i suoi rapporti con Ivano Perego, imprenditore lombardissimo, in affari con il boss dell’Aspromonte Salvatore Strangio.
Un boss e un imprenditore, oggi imputato per reati di mafia. Sullo sfondo Milano. Città non più da bere, ma da conquistare con i soldi della ‘ndrangheta e i mezzi dell’impresa lombarda. Miscela perfetta. E in mezzo? Il politico, anzi l’ex politico, meglio il lobbista. Definizione del giudice milanese Roberto Arnaldi che ieri ha depositato quasi mille pagine di motivazioni alla sentenza che, il 19 novembre 2011, ha condannato 110 persone, assolvendone solo tre: tra queste proprio Antonio Oliverio. Assoluzione chiesta dallo stesso pm Alessandra Dolci, che davanti a un processo abbreviato (senza dibattimento e basato solo sulle carte dell’indagine), non ha potuto che abdicare al codice.
Dunque carta canta e Oliverio scampa la galera. Motivo? I vantaggi ottenuti arrivano dopo le sue dimissioni dalla Provincia. Eppure le parole restano. Quelle del giudice Arnaldi che nelle prime ottocento pagine ricalca l’impianto accusatorio della procura: contatti tra boss e politici, colonizzazione del territorio e una struttura, la Lombardia, sempre più autonoma dalla Calabria. Poi, a pagina 817, ecco Oliverio e l’amicizia con Ivano Perego.
Un salto indietro. Maggio 2009. La Perego costruzioni è già affare della ‘ndrangheta. Chi comanda è Salvatore Strangio. Che infila soldi e, annota il gip Giuseppe Gennari, “trasforma l’azienda in uno zombie a disposizione delle esigenze e degli interessi della componente ‘ndranghetista”. In quel momento i rapporti tra Perego e Oliverio “iniziati già tempo” diventano assidui. Siamo nel periodo in cui il politico (trombato da Penati) passa dall’altra parte dove, però, non troverà fortuna e non sarà rieletto. Poche settimane prima (6 aprile) il terremoto colpisce L’Aquila e l’Abruzzo. La ‘ndrangheta vuole entrare nell’affare. Ci proverà ma senza fortuna. Obiettivo: la fusione con la Cosbau spa all’epoca “assegnataria di alcuni lotti relativi alla ricostruzione”. Per la mafia, scrive il gip, prendersi Cosbau “vuole dire entrare alla grande nel giro degli appalti pubblici”. Il progetto viene annunciato dal broker Andrea Pavone allo stesso Oliverio. “Diventeremo un’azienda tra le prime cinque più importanti del settore”. L’ex politico risponde: “Ti sono vicino, tu lo sai…”.
Da quel momento in poi Oliverio sempre più viene considerato “una figura di non trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che interessano le vicende della Perego”. E di conseguenza della Cosbau dove i colletti bianchi della ‘ndrangehta progettano di infilare tre uomini nel cda. Uno di questi è Oliverio. “Tu – dice Pavone – sei l’espressione nostra (…) per la capacità di organizzare il mercato sotto l’aspetto pubblica amministrazione”. Tutto fatto: anche l’ufficio in piazza Duse. “Cazzo è in centro, perfetto”, esclama l’ex Udc.
Insomma, il lavoro di lobby inizia a fruttare: ufficio vicino a corso Venezia, qualche bella macchina. Una Bmw M6? Perché no. E se questa non va bene ecco in pronta consegna una più classica Mercedes. Eppure, seguendo le parole di Arnaldi, i rapporti tra Perego e Oliverio risalgono “indietro nel tempo”. I due si conoscono, almeno dall’aprile 2009, periodo in cui Oliverio è ben saldo alla poltrona di assessore provinciale al Turismo. E’ in questo mese, e grazie all’opera del politico in carica, che Ivano Perego parteciperà alla “Giornata della Sussidiarietà”, organizzata dalla Compagnia delle opere. Il giorno prima lo stesso imprenditore conversando al telefono dirà riferendosi al politico: “Ci muoviamo insieme (…) l’Antonio mi vuole bene”. Terminata la manifestazione ecco il racconto dalla viva voce dell’imprenditore, ormai da tempo, a libro paga della ‘ndrangheta: “C’era Formigoni, Lupi c’erano tutti… io in pole position”.
Nella primavera-estate 2009 l’agenda di Oliverio è molto fitta. Perego gli va dietro. Fissano un incontro con l’allora assessore regionale all’Artigianato Domenico Zambetti. Mentre per sbloccare l’affare della cava di Cremona, Oliverio propone una cena con il futuro presidente della Provincia Guido Podestà al Plaza di San Donato Milanese. E poi ci sono le mille intercettazioni in cui l’ex assessore (siamo a giugno) dice “di non esporsi troppo con Podestà perché poi magari rivince Penati e lui li ancora quattro contatti li ha”. Oppure “promette a Perego di aprirgli tutte le strade” perché “loro sono una squadra” e “Oliverio è il capo”. Parole, annoterà nel 2010 il gip Giuseppe Gennari, “che dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione della cosa pubblica, non possono che preoccupare”
E per un processo che si chiude un altro (il prossimo 11 giugno) si apre. Sul piatto sempre ‘ndrangheta e politica. Nomi diversi? Solo in parte, perché quello di Antonio Oliverio, pur non indagato, compare nell’indagine sul presunto clan Valle-Lampada. Addirittura, gli investigatori, annotano contatti tra Oliverio e Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario dei Condello, a partire dal 2006. In quel periodo Lampada (“boss che gira armato di pc e non di pistola”) conosce anche un altro politico: è Armando Vagliati, consigliere comunale del Pdl. Anche lui mai indagato. E il motivo lo spiega il capo dell’antimafia milanese Ilda Boccassini. “Il nostro metodo è di accusare qualcuno solo quando siamo certi di poterlo mandare a processo. Altrimenti un’assoluzione è un regalo alla mafia e una sconfitta non per il pm, ma per lo Stato”.