Un assegno da quaranta milioni di euro da Roma a Redmond. Forse l’impegno di spesa più sostanzioso di tutti i tempi per fornire le pubbliche amministrazioni italiane di software Microsoft. La gara, indetta con procedura telematica a maggio, scadrà il 18 giugno e dall’aggiudicazione in poi gli enti potranno aderire acquistando licenze d’uso che valgono un anno. Nel 2013 saranno da capo. E non è l’unica campagna acquisti in corso. Fujitsu si è appena aggiudicata la fornitura di 40mila licenze Office per 12,6 milioni di euro. Basta una rapida ricognizione sulla Gazzetta Ufficiale per scoprire come ogni ente pubblico dello Stato italiano, centrale o periferico, sia impegnato in una qualche gara per comprare software proprietario. Un fiume di denaro pubblico che, in un momento di ristretezze come questo, non può che riportare in auge il tema dell’open source, il codice sorgente libero e quasi gratuito.
Se ne parla dalla fine del secolo scorso, ma la strada per adottarlo è ancora tutta in salita. Gli enti locali lo hanno fatto in modo marginale (database, Open-Office, Csm…) e a macchia di leopardo; le Regioni hanno varato leggi e leggine, ma non ce n’è una che abbia fatto una seria politica di migrazione al software libero. A livello centrale è pure peggio: i governi degli ultimi anni hanno smantellato quel poco che si era mosso sulla strada del software libero. Così, insieme al tema dello spreco, inizia a imporsi quello del mancato sviluppo di un’intera industria nazionale che poteva essere rilevantissima in termini di occupazione. Insomma, lì ci sarebbe lavoro per chi lo vuol vedere. “Ma la politica è miope”. Lo denunciano le principali associazioni attive sui temi dell’open source e open data, da Agorà digitale all’Associazione Nazionale Informatici Pubblici e Aziendali (Anipa).
“Il software libero – sostiene Luca Nicotra, segretario di Agorà Digitale – avrebbe un impatto decisivo sull’economia locale dell’innovazione, farebbe lavorare professionisti e imprese che oggi di fatto non hanno un mercato e non lo avranno fino a quando le politiche nel settore pubblico saranno orientate al software chiuso proposto da grandi e influenti produttori con relazioni consolidate, rapporti pluriennali con amministrazioni centrali e periferiche. Alcuni governi pensano che dobbiamo riprendere questo controllo e dare la possibilità al paese, alle industrie locali, ai giovani programmatori di poter avere un ruolo nello sviluppo tecnologico. L’Italia su questo fronte non ha una sua visione e rischia di essere una centrale per gli acquisti a beneficio dei soliti noti, siano essi Microsoft, Ibm, Oracle o altri”.
Rincara la dose Flavia Marzano, presidente degli Stati Generali dell’Innovazione, docente universitaria e consulente in materia di nuove tecnologie in Pubblica Amministrazione: “Quei 40 milioni sono la punta dell’iceberg perché le amministrazioni acquistano di tutto e di più, anche quando l’alternativa è disponibile gratuitamente. Scandaloso il caso delle licenze di Office che gli enti locali continuano a comprare spendendo 30 milioni di euro quando c’è il corrispettivo Open Office”.
Secondo l’esperta la PA non ha bisogno di software proprietario “se non per un 10% di applicativi custom molto specifici venduti con licenza. Nel 90% dei casi, dal data base ai software di produttività personale e operativo non hanno bisogno. Il punto è che da troppi anni, da troppi governi, non sono state definite strategie a lungo termine per l’innovazione del Paese e questo anche per lo strapotere delle lobby che hanno in mano il mercato senza che nessuno controlli e metta loro un freno”. Il tema sarà dibattuto ampiamente nella VI Conferenza italiana sul software libero in programma all’Università di Ancona il 21 giugno.
Il dato di fatto, insomma, è che l’open source è rimasto al palo. Eppure gli esempi positivi, di innovazione e risparmio, in questi anni non sono mancati. Nel 2009 la Provincia di Bolzano ha adottato il software libero in un’ottantina di scuole pubbliche: spendeva in licenze 269mila euro l’anno, ora ne spende 27mila in manutenzione. Si calcola che se la stessa cosa facesse la Regione Sicilia si otterrebbe un risparmio annuale di 10 milioni di euro. Ma anche su questo fronte poco si muove. Toscana, Veneto , Piemonte, Umbria e Lazio hanno varato leggi regionali per agevolare l’adozione del software libero che sono rimaste sulla carta, dichiarazioni di intenti dal valore più simbolico che programmatico. “Io stessa ho partecipato all’iter che doveva portare Soru in Sardegna e Vendola in Puglia a una migrazione. Due fallimenti completi. Una volta riempito il cassetto di studi, anali e proposte è stato chiuso”, spiega la Marzano.
Nel frattempo a livello nazionale è successo qualcos’altro. I governi degli ultimi anni non hanno investito nulla sull’open source. Peggio, hanno addirittura smantellato quel poco che era stato messo in campo per promuoverne conoscenza e diffusione. Nel 2003 è stato istituito l’Osservatorio sull’Open source per catalogare i programmi senza licenza utili alle amministrazioni. L’Osservatorio è poi stato ridotto dal ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta a un ufficio senza fondi. Oggi esiste ancora, ma da due anni ha un solo addetto. “Mettiamo che ci sia un amministratore illuminato – ipotizza la Marzano – che voglia davvero smetterla di sprecare soldi pubblici in licenze, dove trova le alternative? Non c’è più un repository nazionale o un centro di competenza cui chiedere. Così, ogni amministrazione fa piccoli passi avanti per proprio conto, mentre la crescita dell’open source condiviso e scambiato sarebbe esponenziale”. Il “nuovo Codice dell’amministrazione digitale” di Brunetta non cita neppure la parola. Di open source non c’è traccia neppure nelle note. Una scelta sorprendente visto che lo stesso sito dedicato a spiegare la Riforma Brunetta è stato realizzato col cms open source Drupal.
Il risultato dell’abbandono è che, ad oggi, non si sa neppure quanto globalmente spenda il nostro paese come cliente di licenze proprietarie e quanto ricorra invece al software con codice sorgente libero e gratuito. I dati sull’acquisto, come detto, sono spersi in mille rivoli. Assinform nel 2003 stimava una spesa globale in Ict pari a 3 miliardi di euro (1,7 per quella centrale, 1,2 per la periferica) di cui circa 675 milioni in software con licenza. Statistiche più aggiornate non ce ne sono. Ed è paradossale perché proprio l’Istituto nazionale di statistica (Istat), da cinque anni a questa parte, è progressivamente migrato verso l’Open Source con un risparmio che il responsabile dello sviluppo software Carlo Vaccari stima pari al 50%. Nel 2003 Istat spendeva 1,2 milioni di euro l’anno in software proprietario, oggi spende meno della metà e sviluppa in proprio gli applicativi e i sistemi open di cui ha bisogno.
Anche il governo tecnico di Mario Monti, è l’opinione degli esperti, si è rivelato piuttosto “timido” nei confronti del software libero, anche se molti ricordano la battaglia tra l’allora commissario europeo e il gigante Bill Gates finita con una multa da 500 milioni di dollari per il magnate di Redmond. Da premier, Monti ha cambiato strada. Su pressione del radicale Marco Beltrando, che ha fatto passare un apposito emendamento in Senato, il capo del governo ha inserito nella manovra “Salva Italia” l’obbligo per la PA di “considerare” anche il software libero tra le scelte possibili (articolo 29-bis). Ma non quello di adottarlo nel caso effettivamente convenga. Una misura a metà, insomma. A esprimere quel parere è l’Ente nazionale per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (Digipa). Il suo presidente, Francesco Beltrame, non fatica ad ammettere che l’open source è ancora “una scelta marginale, tanto da non fare statistica”.
Anche l’Agenda Digitale promessa da Monti è in alto mare. Annunciata trionfalmente come decreto “DigItalia”, doveva essere inserita nelle liberalizzazioni di febbraio ma è slittata a fine giugno e probabilmente sarà sul tavolo del governo ad agosto e nella forma di una serie di linee guida e niente di più. “Sono intervenuta nella commissione che si occupa di open data – racconta la professoressa Marzano – e penso che sul fronte dell’open source non ci sia ancora la forza e la volontà politica di bloccare la corsa agli acquisti che semplifica la vita ai burocrati e rende felici le grandi imprese del software.
La strategia è tirare alla lunga anche se proprio un governo di tecnici come questo dovrebbe capire al volo che l’investimento nell’open source è strategico: magari all’inizio la migrazione costa nella formazione per i dipendenti, per far transitare gli applicativi e dati, ottimizzare i programmi. Ma è lampante che, fatto questo investimento, presto o tardi lo Stato arriverà al pareggio, da un certo punto in poi inizierà a fare risparmi incalcolabili. Per non parlare dell’indotto che una seria migrazione avrebbe sull’economia locale, dando uno sbocco a imprese e professionisti del software artigianale che oggi in Italia ci sono ma operano ai margini”.