Al tempo in cui la Procura generale di Catanzaro rifiutava la copia dei processi di De Magistris ai colleghi di Salerno, il presidente Napolitano chiese copia dei medesimi atti, dicendosi allarmato per la “guerra tra Procure” che, secondo lui era in corso. In tempi più recenti, ritenne di rispondere alla moglie di Silvio Scaglia, arrestato e processato per gravi reati di natura economica, che gli aveva scritto pregandolo di intervenire a favore di suo marito, assicurandole che avrebbe chiesto copia degli atti.
In questi giorni il suo uomo di fiducia, Loris D’Ambrosio, assicura a uno degli indagati nei processi per la trattativa Stato-mafia, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, che il presidente ha preso a cuore la questione. E un altro uomo di fiducia, Donato Marra, segretario generale, scrive al Procuratore generale della Corte di Cassazione che il presidente della Repubblica è preoccupato di gestioni non unitarie condotte da alcune procure quanto a detti processi e, per spiegare dette preoccupazioni, gli trasmette le considerazioni svolte in proposito dallo stesso Mancino, indagato da una di queste procure. Il che, come ognuno capisce, avrebbe dovuto essere fatto dall’avvocato di costui e non dalla Presidenza della Repubblica. La varietà degli interventi del presidente Napolitano potrebbe indurre a ritenere che questo suo agitarsi in vicende giudiziarie nasce dalla convinzione che, tra i suoi compiti, vi sia quello di contribuire autorevolmente all’efficienza e alla corretta gestione dei processi, in particolare di quelli penali. Ma sarebbe una valutazione troppo generosa poiché, anche se professore di diritto ecclesiastico e non di diritto costituzionale o di procedura penale, non gli mancano lingue esperte che possono sussurrargli all’orecchio: “Presidente questo non si fa, non sta bene”. Si può essere certi, ad esempio, che D’Ambrosio sa perfettamente che il presidente della Repubblica non ha nessun titolo per intervenire, in qualsiasi modo, nemmeno con lettere, messaggi o raccomandazioni, in processi penali o civili.
Il problema è che questa abitudine di intervenire (ma la parola esatta tecnicamente è interferire) nei processi in corso è molto radicata in un gran numero di persone, in particolare in quelli che, saliti in punta alla piramide, si convincono che vedere il mondo da quell’altezza li renda diversi dagli altri uomini e che sono loro consentite cose che ad altri non sarebbero e che, anzi, costituirebbero reato o quantomeno illecito disciplinare. Per esempio, il Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, parla cordialmente con il Nicola Mancino suddetto; che sarà anche stato ex ministro dell’Interno, ex presidente del Senato, ex vicepresidente del Csm; dunque ex mattone di vertice della piramide; ma che (come gli dice lui stesso) c’è rischio sia sospettato di falsa testimonianza nel quadro del processo sul patto mafia-Stato (non proprio una guida senza patente). E dunque mettersi a chiacchierare con lui già non è una bella cosa. Ma parlasse dell’ultima rappresentazione della Carmen ci potrebbe ancora stare (anche se gli consiglierei interlocutori diversi: come titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, Esposito sa che il giudice non deve solo essere ma apparire imparziale e su questa storia si sono consumate centinaia di sentenze disciplinari di condanna). Il fatto è che lui si dichiara“a disposizione; adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo”. Cos’è, è diventato l’avvocato difensore di Mancino? Il suo consigliore di fiducia? L’uomo di potere che si dichiara disposto a interferire su un processo che interessa il Mancino? E se non è nulla di tutto questo, perché diavolo non dice a Mancino quello che centinaia di magistrati hanno detto a centinaia di postulanti amici o conoscenti:“Mi dispiace ma non posso parlare di processi gestiti da altri colleghi; men che meno di quelli che ti riguardano; anzi sarebbe bene che, fino a quando la tua posizione non si è chiarita, i nostri rapporti si interrompano”? L’aria che si respira al vertice della Procura generale della Cassazione deve essere rarefatta; ti fa dimenticare nozioni elementari di diritto.
Il successore di Esposito, Gianfranco Ciani, pare non sapere che le sue prerogative istituzionali gli consentono, anzi gli impongono, di esercitare l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che sono sospettati di commettere illeciti di tale natura. Per il ché può chiedere informative ai procuratori generali e procedere ad atti di indagine. E comunque non sa certamente che non gli consentono invece di convocare il procuratore nazionale antimafia, dirgli che sempre il suddetto Mancino è preoccupato per il mancato coordinamento delle indagini tra tre procure, che sarebbe bene fornire a queste indirizzi investigativi precisi e che comunque desidera una relazione in proposito.
Fortunatamente il procuratore nazionale antimafia respira aria più ricca d’ossigeno e gli risponde per le rime dicendogli quello che qualsiasi magistrato, antimafia o no, sa perfettamente: né la procura generale presso la cassazione né la procura nazionale antimafia possono dire ad altre procure come indirizzare le indagini. E, quanto al coordinamento, si stanno coordinando benissimo, se non altro perché nessuno si è finora lamentato, nemmeno con il (desueto?) ricorso alla Procura generale presso la Cassazione per regolamento di competenza che si fa quando due o più procure non sono d’accordo su chi si deve occupare delle indagini. Ma appunto è roba fuori moda, oggi vanno i “rapporti diretti e personali”. Di gente che si agita ce n’è comunque parecchia; il Fatto lo ha raccontato con dovizia di particolari e nessuna smentita. Ma quello che è grave è che si agitino persone che dovrebbero avere ruoli di garanzia e di guardiani della legalità; e che lo facciano non perché stiano pensando: “Ma qui la legalità è violata occorre vigilare”; no, lo fanno perché sono amici di un ex super politico, di uno che li chiama ’guagliò”, di uno che non capisce nemmeno niente di diritto (Mancino a Esposito: “Resta la figura di una persona renitente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”; dunque una confessione e una cazzata: l’art. 371 bis a che servirebbe?). Ora che un indagato cerchi di farla franca dedicandosi al traffico di influenze ci sta; ma che ci stiano anche i vertici della piramide mi sembra proprio la fine della fine.
Da Il fatto Quotidiano del 20 giugno 2012