Togliere il pallone a un bambino, per distruggere i suoi sogni e con loro quelli di un intero popolo. Mahmoud Sarsak, 25 anni, giovane promessa del calcio palestinese e della nazionale, versa in condizioni gravissime nel carcere israeliano di Ramleh: da tre mesi sta facendo lo sciopero della fame, per protestare contro una detenzione illegale che dura oramai da oltre tre anni. I medici spiegano che alcuni suoi organi sono danneggiati irreversibilmente e, se anche Mahmoud dovesse essere liberato a breve, non potrà comunque tornare a giocare a calcio. Ma quello che importa a questo punto è che al ragazzo, ancora in attesa di processo dopo tre anni di carcere, sia restituita almeno la libertà. La storia di Mahmoud Sarsak è infatti paradigmatica delle sofferenze di un intero popolo.
Nato a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, Mahmoud inizia a giocare da bambino per strada e viene notato dagli osservatori della squadra locale, il Rafah Sport Club, di cui in breve diventa la stella. Poco più che adolescente diventa il centravanti titolare, e a suon di gol si guadagna il posto nella nazionale palestinese. Grazie al suo status privilegiato di calciatore della nazionale Mahmoud, a differenza degli altri bambini con cui giocava a pallone per strada, può uscire dalla Striscia di Gaza: viaggia in Egitto, Iraq, Qatar e Norvegia. Ma proprio inseguendo un pallone che rotola oltre i confini imposti ai palestinesi di Gaza, il 22 luglio 2009 è arrestato dalle autorità israeliane mentre si appresta a oltrepassare la frontiera del valico di Erez.
Da allora comincia l’odissea. Mahmoud, accusato senza prove da Israele di essere un combattente illegale jihadista, è infatti sottoposto al regime di “detenzione amministrativa”: un’assurdità etica e giuridica per cui lo stato di Israele tiene in carcere chiunque voglia, sulla base di un semplice sospetto, e senza dover produrre alcuna prova. In quanto Israele sostiene che, se fossero rivelati indizi o prodotte prove, si metterebbero in pericolo le forze armate israeliane che conducono le indagini. Questo provvedimento di carcerazione per sospetto, senza necessità di prove, può essere reiterato all’infinito dal Ministero della Difesa di Israele. E a Mahmoud è stato rinnovato per ben sei volte.
Mai sottoposto a processo, mai accusato formalmente con prove se non con il generico sospetto di essere un “combattente“, mai formalizzati ai suoi avvocati i capi di accusa, alla sesta volta che si è visto reiterare la “detenzione amministrativa“, il 19 marzo scorso Mahmoud Sarsak ha cominciato lo sciopero della fame. Anat Litvin, portavoce dei medici israeliani in difesa dei diritti umani, si è detto molto preoccupato per le condizioni di salute del detenuto, che potrebbero precipitare da un momento all’altro. La scadenza dell’attuale provvedimento di detenzione è infatti fissata per il 22 agosto, ma Mahmoud, che ha già perso quasi 30 chili e i cui organi sono danneggiati irreversibilmente, non è detto che a quella data ci arrivi.
Il 3 giugno Mahmoud ha lanciato un appello e da allora in molti, nel mondo del calcio di solito così restio a prendere posizioni, si sono schierati per chiederne l’immediata liberazione. Lo hanno fatto il sindacato internazionale dei calciatori professionisti FIFPro e addirittura il presidente della Fifa Blatter, che ha inviato una lettera ufficiale ai vertici del calcio israeliano. Diversi giocatori spagnoli tra cui Gurpegui (Athletic Bilbao), Paredes (Zaragoza), López (Atletico Madrid) e Puñal (Osasuna), hanno scritto una lettera aperta sul Diario de Navarra. E’ intervenuto anche il leggendario calciatore Eric Cantona, che insieme al regista Ken Loach e al linguista Noam Chomsky, ha scritto alle autorità britanniche e alla Uefa. Tace invece l’Italia del calcio, ma non è una novità. Sarebbe ora che anche i nostri pallonari e i loro dirigenti si mobilitassero per sostenere la drammatica situazione del ragazzo. E per estensione di un popolo dove ai bambini, come a Mahmoud è stato impedito di segnare, è reso sempre più difficile sognare.