Chiusura negativa per i mercati finanziari, tutti caratterizzati dal segno meno sull’onda lunga delle notizie di ieri. Le stime al ribasso sulle prospettive di crescita globale e i provvedimenti monetari espansivi provenienti da Londra, Francoforte e Pechino, che ne certificano la consapevolezza, spaventano i mercati influenzandone così l’andamento. Milano chiude oggi a -2,53%, mentre sul fronte obbligazionario salgono i rendimenti dei titoli italiani a dieci anni, che toccano il 6% (con uno spread a quota 468 punti base), così come quelli degli omologhi spagnoli che segnano un interesse del 6,87% (spread a 554).

Ma cosa influisce sulla svolta negativa dei mercati? In sintesi una pessima combinazione di fattori. Tanto per cominciare c’è il deterioramento del clima diplomatico europeo. A una settimana di distanza dal vertice di Bruxelles, i toni trionfalistici si sono placati. E’ vero, la Germania ha offerto la propria apertura all’ipotesi di intervento sul mercato secondario dei titoli tramite il fondo salva Stati, ma come ha specificato la stessa Angela Merkel vi sono ancora molti dettagli da chiarire. La definizione di questi ultimi sarà il tema centrale del prossimo Ecofin, previsto per lunedì 9, quando i ministri finanziari dell’area tenteranno la mediazione decisiva. Un compito non facile di fronte all’ostruzionismo di Olanda e Finlandia. Oggi, la titolare del dicastero finanziario di Helsinki Jutta Urpilainen ha dichiarato che il suo Paese non si farà mai carico dei debiti di altre nazioni, anche a costo, ha lasciato intendere, di abbandonare la moneta unica.

LA TENSIONE IN EUROPA – All’aumento della tensione in Europa si accompagnano poi i timori di un ridimensionamento della crescita globale. Ieri, in conferenza stampa, Mario Draghi ha parlato chiaro: “C’è un indebolimento della crescita in tutta l’area euro, anche in quei Paesi che prima continuavano a crescere”. Un segnale che preoccupa. Come se non bastasse è giunta in seguito anche l’analisi di Christine Lagarde. “L’outlook sulla crescita globale prevede qualcosa in meno rispetto a quanto abbiamo anticipato soltanto tre mesi fa”, ha detto la numero uno del Fondo monetario internazionale sottolineando, in estrema sintesi, che il rallentamento non riguarda soltanto le aree “mature” ma anche i Brics (Brasile, Russia, India e Cina), ovvero i grandi mercati emergenti che trainano l’export delle aree consolidate (Germania in primis). In pratica una conferma delle previsioni negative già espresse nel recente passato.

Ieri, comunque, non è stato solo il tempo delle parole. Pressoché in contemporanea, infatti, da Eurolandia, Regno Unito e Cina sono arrivati tre provvedimenti di segno analogo che hanno di fatto certificato il problema. La Bce ha abbassato il costo del denaro spingendone il livello al di sotto della soglia psicologica dell’1%; la Bank of England ha iniettato altri 50 miliardi di sterline nel mercato, mentre la banca centrale cinese ha proceduto al secondo taglio dei tassi a distanza di un mese dal primo. Proprio quest’ultima operazione ha lanciato implicitamente un pessimo segnale al mercato: la Cina continua a stimolare artificialmente la propria economia perché percepisce preoccupanti segnali di rallentamento. E se a rallentare è la seconda economia del mondo, come noto, le conseguenze sono pericolose per tutti.

IL FATTORE CINA – Tre settimane fa, il direttore del China Center for International Economic Exchanges e consigliere del governo di Pechino Zheng Xinli ha ipotizzato che, nel corso del secondo semestre 2012, l’espansione dell’economia cinese possa scendere addirittura al di sotto del 7% su base annuale. Ma a spaventare, più ancora delle stime, sono soprattutto gli interventi a sostegno della crescita da parte del governo. Da anni, infatti, i dati ufficiali diffusi da Pechino sono giudicati da alcuni analisti non del tutto attendibili. Nel 2007, durante una conversazione resa nota in seguito da un cable rilanciato da Wikileaks, il vice premier cinese Li Keqiang, all’epoca segretario del Partito nella provincia di Liaoning confessò addirittura all’ambasciatore americano Clark Randt che i dati sul Pil regionale erano “soltanto cifre di riferimento”. Nel 1998, Pechino comunicò un tasso di crescita annuale del 7,8%, ma analizzando alcuni indicatori chiave solitamente correlati al Pil – produzione di cemento, elettricità, importazioni e passeggeri delle linee aeree – alcuni economisti indipendenti stimarono un’espansione prossima allo zero.

In altri termini, i dati forniti dalla Cina devono essere sempre adeguatamente interpretati alla ricerca di conferme (o smentite) nei controlli incrociati e nell’osservazione delle strategie del governo. Per questo l’annuncio di un ulteriore taglio dei tassi spaventa particolarmente i mercati. La concomitanza delle altre notizie negative e la crescente tensione a livello europeo genera quindi incertezza. E quest’ultima, inevitabilmente, non può che produrre ribassi generalizzati.

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