Eugenio Scalfari attacca il Fatto Quotidiano, le sue inchieste sulla Trattativa Stato-mafia, le richieste di chiarezza rivolte da Antonio Padellaro al capo dello Stato sulle telefonate con Nicola Mancino, oggi indagato per falsa testimonianza. E sulla base di una scarsa conoscenza del codice di procedura penale, arriva persino a domandare interventi disciplinari contro la procura di Palermo.
“Alcuni giornali conducono da tempo una campagna sul cosiddetto caso Mancino per mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica” scrive su la Repubblica Scalfari al termine del suo editoriale della domenica. Che poi prosegue: “Negli ultimi giorni lo esortano a rendere pubbliche le telefonate che ha avuto con Nicola Mancino e che sono stare registrate dalla Procura di Palermo. Non entro nel merito, che riguarda le Procure interessate, i gip che ne autorizzano gli interventi, il Procuratore generale della Cassazione che ha la vigilanza sul corretto esercizio della giurisdizione e detiene l’iniziativa di eventuali procedimenti. Osservo soltanto che quei giornali così legittimamente desiderosi di chiarire eventuali misteri e possibili ipotesi di reato scrivono come se sia un fatto ovvio che il Presidente della Repubblica è stato intercettato e che il nastro dell’intercettazione è tuttora esistente e custodito dalla Procura di Palermo”.
E sì, perché, secondo il fondatore di Repubblica, “gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto” e perché “forse l’agente di polizia giudiziario incaricato dell’operazione non sapeva o aveva dimenticato che da quel momento in poi stava commettendo un gravissimo illecito“. Quindi l’attacco frontale ai pm: “Ma l’illecito divenne ancora più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova”.
Secondo Scalfari “la gravità di questo comportamento (quello di aver intercettato Napolitano e conservato la registrazione, ndr) sfugge del tutto ai giornali che pungolano il Capo dello Stato senza però dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quella Procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando – in seguito ad un “impeachment” – non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia”.
Secondo il fondatore de la Repubblica, “si tratta di norme elementari della Costituzione e trovo stupefacente che né i Procuratori interessati, né i giudici che autorizzano i loro interventi, né i magistrati preposti al rispetto della legge, né gli opinionisti esperti in diritto costituzionale abbiamo detto una sola sillaba in proposito con l’unica eccezione dell’ex senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione parlamentare sulle stragi”.
Purtroppo per Scalfari le cose stanno in modo diverso. Nessuno tra coloro i quali conoscono le leggi italiane ha detto una sillaba denunciando il presunto abuso, semplicemente perché l’abuso non c’é. In questo caso infatti l’intercettato per ordine di un giudice era Mancino (non coperto da nessuna immunità). E solo il giudice, al termine di un’apposita udienza, una volta sentiti pm e avvocati (ai quali l’intero materiale va messo a disposizione), può decidere di distruggere intercettazioni ritenute irrilevanti. Il perché é semplice: se lo potessero fare da soli gli investigatori, magari interrompendo a piacimento gli ascolti, o i pm (eliminando conversazioni quando vogliono) il rischio deviazione in tutte le indagini sarebbe altissimo. Perché, senza nessun controllo, potrebbero essere buttate via prove a discarico degli indagati o conversazioni che invece ne dimostrano la colpevolezza.