Più armi e qualche maresciallo in meno. I tagli veri sono per le missioni all’estero. Il piano presentato dal ministro della Difesa nel solco dell’operazione spending review è tutto qui. Il documento parla di un miliardo di euro da ripartire nel biennio 2013-2014 ma sembra ben poca cosa rispetto ai cinque/sette chiesti, ad esempio, alla sanità o ai 24mila esuberi nella pubblica amministrazione. Al di là delle cifre le stesse scelte operate dall’ammiraglio Giampaolo Di Paola sollevano dubbi e critiche che si materializzeranno a fine luglio in aula, dove l’Idv annuncia battaglia e anche il Pd, che pure sostiene il governo, presenterà una serie di emendamenti correttivi.
Il punto è che più che una revisione la spending review del comparto Difesa e sicurezza è ridotta a una modesta rimodulazione della spesa che salva le armi e taglia le risorse per i contingenti dispiegati sotto le bandiere dell’Onu e della Nato, dall’Afghanistan alla Libia. Restano praticamente inalterate le spese previste per gli acquisti militari (compreso il capitolo da 12 miliardi per i contestati F35) mentre sul taglio del personale va in scena una sorta di deroga alla regola generale del 10% che è stata imposta agli altri comparti dello Stato ma che di fatto risparmia i militari: per loro il taglio sarà della metà, forse meno.
A offrire un salvacondotto al settore militare ha contribuito la sovrapposizione tra la revisione di spesa straordinaria del governo e una più complessa opera di riforma del comparto che da tempo impegna il Senato. I due testi, rilevano le organizzazioni che si battono per una politica di disarmo riunite nella campagna “Taglia le ali alle armi“, alla fine si muovono nella stessa direzione: alleggeriscono alcune voci di quel poco che basta per non intaccare le campagne di acquisto di armamenti che solo nel 2012 ammontano a 30 miliardi di euro e che nelle proiezioni decennali di spesa arriveranno alla cifra monstre di 230 miliardi a supporto di un enorme apparato militare.
MILITARI SALVATI DAI TAGLI: PER TUTTI VALE LA REGOLA DEL 10%, PER LORO NO
Sul fronte del personale le riduzioni programmate hanno sostituito il bisturi all’accetta che si abbatte invece in altri settori, dal pubblico impiego (24mila tagli) alla giustizia e fino all’istruzione. Nel decreto è indicato che “gli organici delle Forze Armate sono ridotti in misura non inferiore al 10%”. Così, dall’anno prossimo, un militare su dieci dovrebbe lasciare l’esercito: 20mila unità sulle 190mila che oggi sono impiegate (178.571 unità militari e 31.459 civili). Non accadrà. Perché sebbene il testo indichi che le riduzioni vanno ripartite sui diversi volumi organici (ufficiali superiori, ufficiali e sottoufficiali, sergenti e truppa) di fatto ricadranno non su tutto il corpo miliatare ma sulla componente che ha i requisiti per il prepensionamento, quindi sulla categoria residua degli ufficiali (22.250) e sottoufficiali (63.947) mentre non colpiranno i 103.000 volontari di truppa lontanissimi dalla pensione. A lasciare i ranghi potrebbero dunque essere 8.800 unità che non è il 10% ma il 5% dell’organico. Probabilmente saranno ancora meno perché nel comparto Difesa e sicurezza non è ancora entrata in vigore l’ultima riforma previdenziale, si va in pensione ancora con 57 anni di età e 34 di contributi. E il personale che ricade in queste categorie è ancora da calcolare ma sarà una quota non superiore a 5-6mila unità.
Insomma, una limatura del personale che tradotta in euro poterà a un recupero massimo di 400 milioni di euro. Che non è detto si traducano poi in risparmio effettivo, l’uscita dei militari avverrebbe infatti con un largo paracadute: chi non troverà un impiego sostitutivo presso un’altra amministrazione pubblica sarà pagato con il 95% dello stipendio attingendo sempre dal bilancio della Difesa che oggi usa più di tre quarti delle risorse proprio per pagare gli stipendi (15 miliardi su 19 complessivi).
ARMI: SOLO UNA LIMATURA. SUGLI ACQUISTI ARRIVA IL BENESTARE DELL’ECONOMIA
Passa praticamente indenne il capitolo sui programmi d’arma. Il provvedimento indica una riduzione di 668 milioni di euro nei prossimi tre anni che dovrebbe cadere sugli investimenti d’arma, giacché non trova capienza nella parte di esercizio del bilancio. Restano salvi, tra gli altri, i due principali programmi di investimento della Difesa che da soli valgono 28 miliardi di euro: il programma Forza NEC per un “soldato del futuro” che corrisponde ad una serie di strumentazioni e digitalizzazione delle truppe da 16 miliardi e l’acquisto degli ormai famosi F35 per altri 12. Va avanti nel programma di acquisto di 90 Joint Strike Fighter che porteranno lo Stato italiano a un costo in fattura di almeno 12 miliardi di euro (in crescita) e una spesa complessiva per tutta la vita del programma che ne assommerà il triplo, cioè quasi 40 miliardi. Altri 6 miliardi di se ne andranno per ulteriori esemplari di Fregata Fremm (il programma ne prevede quattro). Insomma, la spesa militare non cala ma cresce.
Una conferma indiretta arriva oggi dalle parole del presidente e ad di Finmeccanica Giuseppe Orsi: “Il decreto sulla spending review appena varato dal Governo non impatta drammaticamente sulle nostre attività”. Il top manager ha spiegato che gli investimenti attesi nel 2013 per i contratti che il gruppo otterrà da parte della Difesa sono pari a cinque miliardi di euro, quindi immutati rispetto a quelli del 2011 mentre per il 2012 subiscono un calo di un miliardo. Il governo però prova a mettere un freno allo shopping militare finora condotto con autonomia discrezionale totale da parte del ministro della Difesa. Gli acquisti d’ora in poi non saranno più decisi autonomamente per decreto ma di concerto con il ministro dell’Economia.
PER LE MISSIONI DI PACE 430 MILIONI IN MENO
La spending review della Difesa che risparmia le armi di contro investe pesantemente le missioni all’estero. Prevede già da quest’anno tagli per 8,9 milioni di euro ai contingenti che operano negli scenari caldi del mondo come Afghanistan e Libano. Per trovarli, anche qui, bisogna seguire l’evoluzione del documento fino alla versione definitiva della legge. Il fondo per le missioni di pace, recita il testo, «è incrementato di 1.000 milioni di euro». In realtà è una riduzione di oltre 430 milioni, perché gli stanziamenti attuali prevedevano 1.430 milioni. Come ricadranno queste riduzioni ancora non è chiaro anche perché la presenza dei contingenti italiani è stata concordata con l’Onu e la Nato e prevede impegni pluriennali. Dall’Afghanistan, per esempio, non si potrà partire se non a fine 2014.
Per Rete Disarmo è uno dei punti più deboli della partita: “Il ministro continua sulla strada dell’investimento in armi – spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete – mentre questa era l’occasione per ridare senso alla Difesa riequilibrando la spesa del personale: l’attività principale dell Forze Armate è costituita dalle missioni all’estero, invece tagliare a casaccio solo per poter comprare più armi non risolverà nulla. E non entra nemmeno nel cuore del problema: che tipo di Difesa vogliamo per l’Italia? Noi chiediamo un radicale ripensamento del modello anche per valorizzare il fatto che l’Italia, unico paese al mondo, prevede per legge anche interventi di difesa non armati e soprattutto nonviolenti”.
RIAMMESSI I FONDI PER LE VITTIME DELL’URANIO
Solo un larghissimo movimento d’opinione, alimentato da vittime e parenti, ha scongiurato la beffa del dimezzamento del Fondo per le vittime dell’uranio impoverito. In origine la bozza prevedeva una riduzione già quest’anno di 10 milioni di euro. Quei fondi resteranno anche se da più parti si è fatto notare che all’origine il fondo aveva un dotazione di ben 21 milioni, di cui 9 erogati.
Nessun dissenso invece sul taglio alla cosiddetta “mini-naja, voluta dall’ex ministro La Russa, i cui fondi vengono ridotti per 5,6 milioni di euro. Se l’occasione per tagliare è andata sprecata è anche perché si ritiene che la più generale riforma del comparto in discussione in questi giorni al Senato possa fare di più e meglio della legge sul risparmio scritta di corsa dal governo. Ma le prime relazioni sui provvedimenti esulle sue linee essenziali non sembrano confortare questa ipotesi, anzi. La Ragioneria generale dello Stato ha espresso perplessità sulla legge-quadro definnendo la bozza «un documento che non comporta risparmi, ma rimodula la spesa». In altre parole, il piano della Difesa è quello di «ridurre le spese del personale, ma per aumentare le spese destinate all’esercizio e agli investimenti».
L’Idv e il Pd hanno presentato mozioni e ordini del giorno per indurre il governo a fare di più e ora torneranno alla carica. Augusto Di Stanislao (Idv) aveva chiesto al governo di fermare gli acquisti d’armi programmati ma è stato bocciato con la motivazione che il governo non può intervenire sui programmi di acquisto già sottoscritti. Il Pd è riuscito invece a far passare un ordine del giorno che perà sul fronte armamenti si limita a chiedere genericamente di “sostenere, con un’attiva partecipazione, lo sforzo internazionale per il disarmo, in primo luogo quello nucleare” e “verificare l’utilità, le priorità, i tempi d’attuazione ed i costi di tutti i programmi d’armamento”. In ogni caso il governo sembra andare in direzione contraria e per questo la battaglia è rimandata all’aula dove il provvedimento atterrerà il 31 luglio.