Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha affidato all’avvocato generale dello Stato l’incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo. Oggetto del ricorso, le decisioni che i pm hanno assunto sulle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato. Secondo il Quirinale le prerogative del Colle sono state già lese dai magistrati al momento della valutazione sull’irrilevanza delle telefonate intercettate.
Decisioni che il Presidente ha considerato lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione, anche se riferite a intercettazioni indirette, cioè non disposte su utenze del Quirinale. Alla determinazione di sollevare il confitto, si legge in una nota del Quirinale, Napolitano è pervenuto ritenendo “dovere del Presidente della Repubblica”, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, “evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.
L’iniziativa del presidente trova d’accordo il ministro della Giustizia Paola Severino, in visita ufficiale a Mosca: “Il capo dello Stato ha utilizzato il mezzo più corretto – ha affermato – tra quelli previsti dal nostro ordinamento per risolvere i problemi interpretativi della legge sulle intercettazioni quando queste abbiano ad oggetto conversazioni telefoniche che hanno come interlocutore anche il capo dello Stato”. Secondo il ministro lo scopo del Quirinale è chiaro: “Non certo sollevare conflitti politici o polveroni, ma mettere in chiaro i punti di un’interpretazione che potrebbero riguardare non solo l’attuale presidente della Repubblica ma anche la funzione del presidente della Repubblica”.
Nel decreto con cui il Capo dello Stato ha promosso il conflitto di attribuzione, citando l’art. 90 della Costituzione e la legge 5 giugno 1989, n. 219, si sostiene che le intercettazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, anche se indirette, “non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte”, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione. “Comportano lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione – è scritto nel decreto – l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l’intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte”.
Per discutere della decisione di Napolitano si è svolta al Palazzo di giustizia di Palermo un vertice presieduto dal Procuratore capo Francesco Messineo, che sull’iniziativa del Capo dello Stato si è detto “sereno”, visto che “”tutte le norme messe a tutela del Presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate”. Il procuratore ha poi aggiunto: “Ci troviamo in presenza di un’intercettazione occasionale, di un fatto imprevedibile che a mio parere sfugge alla normativa in esame. Non c’è stato alcun controllo sul Presidente della Repubblica”. Parole confermate anche dal pm Antonio Ingroia, secondo cui “non ci sono intercettazioni rilevanti su chi è coperto da immunità. Se l’intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata. Secondo la nostra posizione – ha aggiunto Ingroia – per altro confortata da illustri studiosi, se l’intercettazione è rilevante nei confronti della persona intercettata, allora è legittima. Non esistono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità. E per quelle non coperte da immunità non c’e bisogno di alcuna autorizzazione a procedere”.
Secondo Sonia Alfano, eurodeputata dell’Idv e presidente della commissione Antimafia europea, “non esiste alcuna motivazione giuridica che giustifichi un atto del genere. Il Presidente Napolitano sta commettendo l’ennesimo scempio, rendendosi di fatto complice dell’isolamento dei magistrati palermitani che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. E’ ormai evidente che bisogna difendere la democrazia e la Repubblica dalle gesta sconsiderate di Napolitano che, come colpito dalla stessa sindrome che caratterizzò gli ultimi mesi del settennato di Cossiga, sta scadendo nel golpismo e nell’attentato alla Costituzione”. E ancora: “Spero che le forze democratiche valutino se non ricorrano gli estremi per la messa in stato d’accusa del Presidente Napolitano”.
Sulle intercettazioni che hanno coinvolto il Quirinale era nato un caso nei giorni scorsi. Oggetto del contendere, le presunte conversazioni registrate tra l’ex ministro Nicola Mancino, indagato nell’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia, e il presidente della Repubblica. Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari aveva scritto un duro commento contro la Procura di Palermo, sostenendo che l’attività di intercettazione avrebbe dovuto essere interrotta immediatamente, appena fosse risuonata la voce del Presidente.
A Scalfari aveva risposto Messineo: “Nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione”.