Ci sono due Italie. La prima è quella che si percepisce dall’estero. È un paese sull’orlo della catastrofe, così vicina alla Spagna e alla Grecia da far paura. Una nazione che lentamente sprofonda verso il baratro del default, dove una bella mattina ci si potrebbe svegliare senza più i soldi per pagare gli stipendi e le pensioni.
Un’Italia povera e malinconica, che costringe i suoi figli migliori a espatriare, che sfinisce ogni imprenditore (inteso non come la genia dei Marchionne, ma nel senso di chi voglia intraprendere qualsiasi tipo di attività) con mille regole e balzelli. A Londra ho conosciuto persone di ogni estrazione sociale in fuga dalla burocrazia e dal familismo e dalla corruzione. Con una semplice mail hanno aperto un negozio di parrucchiere, un ristorante, una rivendita di telefonini. Sono connazionali espatriati che guardano allibiti e ce l’hanno con il proprio paese. Amarezza e nostalgia viaggiano di pari passo. Ce l’hanno con i politici, ma questa non è più neppure una notizia. Mentre è una notizia, anche se in Italia nessuno lo vuole sentire, che sono ancora più indignati con i sindacati e le corporazioni delle professioni, impegnati in battaglie anacronistiche, ideologiche e di retroguardia in difesa degli interessi di pochi rispetto a quelli di molti e soprattutto contro gli interessi del paese. Sono un fattore di stasi, forse peggio della politica, ma in Italia ammetterlo è un’eresia. Eppure dall’estero, con il filtro della lontananza e senza la lente deformante dell’informazione italica, tutto ciò è chiarissimo.
Poi c’è la seconda Italia. È quella percepita da chi vive qui. Da dieci giorni sono in vacanza sul suolo patrio e mi giro intorno stupefatta per cercare di capirci qualcosa. Qui la prospettiva si ribalta e la percezione è quella di un’Italia spensierata, intenta nel solito cazzeggio estivo e dedita alla disinformazione. Leggi i giornali dove i soliti inguardabili discutono delle solite cose. Tutti si lamentano della crisi, dell’Imu, delle tasse ma la preoccupazione principale è la prossima vacanza. Il paese è pronto a chiudere per ferie per tutto agosto. Quando lo dici all’estero, non ci possono credere. Anche gli ospedali sono a ranghi ridotti, perfino chi ha il cancro può attendere, il reparto di chemioterapia chiude per 15 giorni. “Siamo in ferie” dice l’infermiera. E che nessuno tocchi i ponti e le feste comandate. Il weekend è sacro e le previsioni del tempo sono tra le notizie più cliccate.
C’è qualcuno che si rende conto che abbiamo vissuto per decenni al di sopra delle nostre possibilità, tra baby pensioni, condoni fiscali, evasioni, agevolazioni e tredicesime? Direi di no. La colpa è sempre degli altri e ognuno ha il suo cattivo di riferimento. C’è chi la butta sulla Merkel, chi sui tedeschi egoisti che non si vogliono accollare il nostro debito, chi sugli speculatori della finanza. Nessuno che faccia un mea culpa. Il peggiore è il qualunquista facilone, quello che ti dice: l’Italia è un paese ricco, non siamo mica greci. E si dimentica che solo trent’anni fa per la maggioranza delle famiglie comprare una lavatrice era un lusso. Siamo ricchi ma non vuol dire che non possiamo tornare poveri in un batter d’occhio. Poi c’è il qualunquista cazzone, quello che sdottoreggia: ce l’abbiamo sempre fatta, quindi ce la faremo anche stavolta. Non porta argomenti a sostegno della sua tesi, se non la sua certezza. È il più pericoloso, è quello che potrebbe tornare a votare Berlusconi – o un suo pari – purché gli prometta di togliere l’Imu. È il populista in agguato sotto la polvere dello spread.
C’è qualcosa di perverso in tutto ciò. Dall’estero si assiste sbigottiti a questo scempio e poi si sbarca in Italia e vieni preso nel turbine della vita obiettivamente dolce: il sole, il buon cibo, il caldo, la bellezza delle nostre città, del mare, la campagna. Il cittadino medio italiano vive troppo meglio di un cittadino medio inglese, non è possibile che noi siamo un paese di serie B e loro una tripla AAA. Allora un po’ ci credi che forse non è vero niente, che tutto si può risolvere facendo spallucce e affidandosi allo stellone. Poi però tendi l’orecchio e senti una musica in lontananza: è l’orchestrina che suona sul ponte del Titanic.
Il Fatto Quotidiano, 24 Luglio 2012