Alle due del mattino il passaggio è libero e sicuro. I soldati della Jendarma turca hanno lasciato le loro postazioni di controllo. La luna piena ci assiste nello sconfinamento clandestino che dalla turca Reyhanli porta alla siriana Atme, villaggio a tre chilometri dalla frontiera. “Abu Ahmed stiamo arrivando, trovaci una sistemazione per passare la notte per favore”. Salah ha 26 anni, una folta barba nera molto curata e non incolta come vorrebbe la moda di chi rivendica il proprio orgoglio sunnita. Prima della rivoluzione faceva il cassiere in un centro commerciale di Beirut, era un emigrato siriano come molti membri del Free syrian army tornati da Doha e Abu Dabi dove si erano trasferiti per guadagnare salari decenti. “Guarda, quelli sono un gruppo di ragazzi dell’Azerbaijan“, dice indicando un gruppo di cinque. Il riverbero disegna le loro sagome affusolate sul terreno argilloso di questo pezzo di campagna benedetto dalla fecondità della Mezzaluna fertile. Saranno qaidisti? “Mica hanno una tessera associativa con su scritto al Qaeda! So solo che non li vogliamo qui”, Salah spiega che nell’ultimo mese ci sono state tante di quelle diserzioni nell’esercito siriano che ora le armi non bastano più. “Anche i libici creano problemi, vogliono fare di testa loro, su e giù in sella alle loro moto, sono ragazzini di vent’anni”, dice Saleh.

“Attenzione alla maglietta”, Salah solleva a mani nude il filo spinato ormai allentato dai frequenti passaggi. Dopo il gesto galante fa un balzo a terra e striscia sui gomiti sotto quello che fino a un anno fa rappresentava ancora il limite di demarcazione tra i due Stati. La prima cosa che si incontra in territorio siriano; oltre ai libici in motocicletta, sono tre furgoncini piazzati lì a mo’ di taxi per i traffici notturni. Dal tramonto in poi il punto di frontiera diventa un luogo di passaggio per profughi e combattenti siriani diretti o provenienti dalla Turchia. Con loro portano di tutto: cibo, medicine, sigarette, ventilatori, vestiti e chissà cos’altro nascosto in enormi sacchi neri e fagotti di fortuna.

Passiamo la notte ospiti di una famiglia che, esattamente come il resto dei cinque mila abitanti del villaggio, appoggia l’esercito libero. La coincidenza tra rivoluzione e Ramadan impedisce di andare a dormire prima delle quattro del mattino. I ragazzi del luogo raccontano che i cellulari siriani non prendono più da quando la Syriatel ha staccato la linea, per questo c’è la corsa alle sim Turkcell. Chiediamo anche come mai si sentano così al sicuro dagli attacchi dell’esercito siriano e la ragione è semplicissima: da quando il 22 giugno scorso i caccia di Assad hanno abbattuto un jet turco, Ankara ha imposto una no fly zone de facto fino a dieci chilometri dal confine.

La mattina seguente è venerdì, tutto tace fino alla preghiera di mezzogiorno e il successivo sermone. “Vieni andiamo alla scuola elementare – propone Salah dopo la preghiera – sono appena arrivati due feriti da Aleppo”. Dalla chiusura dell’anno scolastico, l’istituto è diventato il quartier generale del Free sirian army. “Siamo seicento – spiega il generale Methgal Bteish, disertore da 45 giorni – ma 450 uomini sono ad Aleppo a combattere”. Salah Akraa e Bakro Abdallah invece sono appena tornati, hanno rispettivamente una mano colpita da un mortaio e la fronte colpita di striscio dal proiettile di un cecchino (foto). “Stavamo combattendo nel quartiere di Salaheddin da venti giorni – racconta Abdalla -. Prima di rimanere feriti e tornare qui ad Atme”. Nel villaggio c’è un ospedale di primo soccorso dove da poco sono arrivati medici stranieri che lavorano ancora in incognito.

“La situazione nel quartiere è drammatica i bombardamenti sono continui,  quindici colpi al minuto. Di giorno e di notte. Chi muore non può essere recuperato e i corpi restano in strada e nelle case – racconta uno dei feriti – per giorni abbiamo dormito e mangiato in una moschea affianco ai cadaveri che non potevamo evacuare per le continue bombe”. “A Salaheddin hanno tagliato corrente e acqua – aggiunge il suo commilitone – mangiavamo solo pane e bevevamo l’acqua in bottiglia che ci riuscivano a procurare gli abitanti del quartiere”. Ma la presenza di cadaveri incustoditi purtroppo riguarda anche Atme: nella scuola superiore Al Bohtori, adibita a ricovero dei molti profughi in transito verso la Turchia, ne troviamo uno semi coperto in un’aula tra banchi rovesciati e quaderni. “Era rimasto ferito a Marra, vicino ad Idlib – spiega Salah – è del mio villaggio. Aiutava ad evacuare i feriti civili, non era un combattente”. Ha la barba bianca ed è completamente ricucito dalla gola al basso ventre. Lungo il corridoio, nonostante l’odore di morte, giocano i bambini. Una piccola ha la varicella e si gratta di continuo mentre mangia patatine in busta sotto un sole cocente. Ci sono 35 gradi. “Porto la mia famiglia in Turchia – dice suo padre – Hanno raso al suolo il nostro villaggio, fortunatamente sono riuscito a prendere un po’ di cose di me”. L’uomo mostra vestiti, pentole, sottoaceti, taniche di olio, elettrodomestici. Su un furgone, aiutato da alcuni abitanti del luogo cerca di caricare i suoi pezzi di vita casalinga. La moglie sorride mentre chiama a raccolta gli altri figli. Si sentono tutti al sicuro sotto questa parte di cielo dove l’esercito di Assad non può neanche azzardare ad accostarsi.

di Susan Dabbous

 

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