“La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. A pronunciare queste parole sugli impianti dell’Ilva di Cornigliano (Genova) dodici anni fa, era l’attuale ministro dell’ambiente Corrado Clini, in veste decisamente più green. Una sorta di alter ego ambientalista, più vicina alla sua origine professionale di medico responsabile dell’igiene pubblica, ruolo svolto fino al 1990 in un altro sito sfortunato, Porto Marghera. Quando chiedeva con decisione la chiusura degli stabilimenti Ilva nella periferia di Genova Clini occupava già da diversi anni il posto di rilievo di direttore generale negli uffici in via Cristoforo Colombo a Roma e, sull’emergenza, in tutto e per tutto gemella di quella di Taranto, non aveva dubbi: “Non sono un politico, so, però, che sul piano ambientale occorre intervenire subito, alla luce anche dei dati emersi oggi dal seminario sul piano della qualità dell’aria”.
Nel quartiere di Cornigliano alle porte di Genova funzionava un impianto di produzione a caldo di acciaio fin dagli anni ’50. Nel 1999, dopo una serie di studi epidemiologici, fu raggiunto un accordo per la chiusura della produzione a caldo. Troppi i morti nel quartiere limitrofo agli impianti Ilva, fu la conclusione delle analisi sull’elevata incidenza di tumori a Cornigliano. A volere con decisione il fermo dell’altoforno c’era in prima linea l’allora ministro dell’ambiente Willer Bordon, sostenuto senza tentennamenti dal direttore generale Corrado Clini. Alla decisione del governo era seguita un’estenuante contrattazione con l’azienda, dove la famiglia Riva riproponeva il ricatto sull’occupazione seguendo lo stesso copione rivissuto in questi giorni a Taranto. Nel 2001 una sentenza del Tar blocca anche l’alternativa, proposta da Riva, di sostituire il vecchio impianto con un forno elettrico, perché non era possibile proseguire nessun tipo di attività inquinante su quel sito, ormai compromesso. Subito dopo avvenne quello che oggi appare una sorta di miracolo: tutti, dal Comune, alla Provincia, alla Regione, fino al governo guidato all’epoca da Giuliano Amato, si trovarono d’accordo su un punto fermo: l’impianto va chiuso, troppi i morti dovuti all’inquinamento.
E’ il 12 giugno del 2001. Il Gip di Genova Vincenzo Papillo firma il decreto di chiusura della cokeria di Cornigliano, dopo aver valutato uno studio approfondito firmato da un gruppo di epidemiologi. Occorrerà aspettare due anni per avere la conclusione della complessa trattativa tra il governo e il gruppo Riva, che puntava a mantenere a Genova la lavorazione a freddo – molto meno inquinante – avviando nel contempo il risanamento dell’area della cokeria e dell’altoforno, ormai dismesso.
Un’inversione di tendenza nel rapporto tra il governo e la famiglia Riva si scorge durante le prime udienze del processo contro la proprietà dell’Ilva, davanti al giudice monocratico di Genova. Inizialmente l’avvocatura dello Stato presenta l’istanza per la costituzione di parte civile; quindici giorni dopo – ricordano le agenzie dell’epoca – arriva una lettera di Gianni Letta al ministero dell’Ambiente e iniziano a circolare con insistenza le voci di una revoca del mandato agli avvocati dello Stato. Ma le sorprese non sono finite. Durante un’udienza un gruppo di abitanti di Cornigliano denuncia che l’altoforno è in realtà ancora in funzione, facendo scattare nuove indagini e un nuovo capo d’accusa contro la dirigenza dell’Ilva. La chiusura definitiva della produzione a caldo arriverà dopo qualche mese, il 29 luglio del 2005.
Mentre i tanti reati contestati finiscono in prescrizione nuove indagini si aprono sulla fase della bonifica, un boccone ghiotto finanziato in gran parte della Stato. Il 18 giugno del 2009 il pm di Genova Francesco Pinto ordina una serie di perquisizioni per una storia di fatturazioni sospette. Tra gli indagati c’è il re delle bonifiche della Liguria Gino Mamone, titolare della EcoGe, la società incaricata del recupero ambientale di Cornigliano. Le ipotesi di reato contestate riguardavano la turbativa d’asta, la corruzione e l’emissione di fatture false, con un’ombra che appare in una delle tante informative della Guardia di finanza pubblicate all’epoca delle indagini dal Secolo XIX: “Gino Mamone è stato segnalato dalla Dia (Direzione investigativa antimafia) per i suoi legami con la cosca della ‘ndrangheta calabrese dei Mammoliti (…) E dalle telefonate emergono inequivocabilmente i rapporti con Vincenzo Stefanelli, detto Cecé, esponente della criminalità organizzata di stampo mafioso, titolare di un’impresa edile”.