La prima notte a meno 373 metri è passata, la seconda è vicina. E le altre seguiranno. I minatori della Carbosulcis, a Gonnesa, nella Sardegna sud occidentale l’hanno ribadito in assemblea: “Si va avanti a oltranza, fin quando il governo non darà risposte certe”. Così i 40 che da domenica sera hanno occupato la galleria del pozzo numero 1 sono stati raggiunti stamattina da altri, circa 80. Con loro hanno in custodia 350 chili di esplosivo, quello che usano per estrarre il carbone, nell’unico sito italiano ancora attivo. Si daranno il cambio man mano – dicono – finché sarà necessario; nessuna paura: sono abituati alle occupazioni, l’ultima, nel 1995, sono stati nelle gallerie per cento giorni. Con loro, questa volta, c’è anche Mauro Pili, deputato Pdl e ex presidente della Regione.
Tuta grigia e caschetto giallo in mano i minatori spiegano il perché del blitz improvviso dopo giorni di agitazione. Temono che il futuro della Carbosulcis (società interamente partecipata dalla Regione Sardegna) sia a rischio perché legato a un progetto da 200 milioni di euro ancora in alto mare. Quello del cosiddetto “carbone pulito” che prevede l’estrazione, e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Nonché la realizzazione di una centrale termoelettrica. L’asta internazionale è in scadenza ma ancora non c’è nessun bando, un ritardo atroce secondo i lavoratori. L’Unione europea finanzierà sei progetti di questo tipo (Css-Carbon Capture and Storage) ma solo uno in Italia. E si dovrà scegliere, anzi, forse si è già scelto. E intanto in Sardegna si continua a estrarre carbone per venderlo all’Enel (unico cliente) che lo brucia per fare energia mentre le multinazionali dell’area, come Alcoa, sono in fuga dopo aver macinato utili e sconti con soldi pubblici.
Guerra tra poveri. Lo scorso dicembre l’Unione europea aveva mosso dei rilievi al progetto presentato dalla Regione e aveva chiesto delle integrazioni. E lo stesso governo sarebbe scettico. Spunta quindi il sito di Porto Tolle, in Veneto, una centrale a olio da convertire a carbone, per cui l’Enel ha un forte interesse. E si dovrà quindi scegliere: o Veneto, o Sardegna. “Eppure – dice Luigi Manca, trent’anni di sottosuolo – la miniera è qui, non lì. E le industrie sono a due chilometri in linea d’aria. Il progetto avrebbe più senso realizzarlo nell’isola. Ovviamente non siamo contro i lavoratori, ma portiamo comunque avanti la nostra lotta con fermezza”. Il 31 agosto ci sarà un vertice romano al ministero dello Sviluppo economico con i vertici della Carbosulcis e della Regione, da cui i 470 lavoratori aspettano risposte. Manca parla vicino al lenzuolo con la scritta “Enel=nemico del Sulcis” e affianco ai mucchi di carbone che da domenica notte bloccano l’accesso della miniera di Nuraxi Figus, si esce e si entra solo a piedi.
Veterani e mascotte. Nella mensa quasi tutto è pronto per l’assemblea del pomeriggio. Nel frattempo si mangia: panini, mortadella, salame e qualche sottiletta. Nelle pareti i dipinti che dividono il mondo in due: sopra, la luce e la vita, sottoterra il carbone e i minatori, completamente neri. Parlano tutti volentieri e la rabbia e l’incertezza si mischia con l’ironia di chi fa davvero un lavoro usurante, anche dagli anni ’80. Manca ha 52 anni, il suo collega Andrea Pinna è quasi coetaneo, stessa carriera. Condividono il pranzo e ricordano le altre occupazioni o gli scontri durissimi a Roma per difendere il loro posto di lavoro. La miniera lavora a ciclo continuo con tre turni: alle 7.15, alle 15.23 e alle 23.07. “Da tre anni a questa parte – raccontano – lavoriamo due mattine, due sere, due notti e poi quattro giorni di riposo. Le condizioni sono di certo migliorate”. Ci sono anche i giovani come Fabio Ariu, 25 anni, da 5 alla Carbosulcis, è quasi una mascotte, scherza con i veterani che gli hanno insegnato a manovrare i mezzi in galleria. Per lui è la prima protesta e come tanti altri giovani del Sulcis ripete come un mantra la scarsa fiducia nel lavoro in Sardegna: “Se chiude partirò, andrò all’estero. O al massimo resto qui a mangiare pane e acqua”. Poche parole sulla gestione dell’azienda, nonostante le polemiche di qualche mese fa sull’amministratore unico, nominato dal governatore Cappellacci. Poi sostituito.
Conflitti d’interesse e strategia a senso unico. Tutti solidali con la lotta ma alcuni hanno grosse perplessità sul progetto “Carbone pulito” e non credono che sia l’unica alternativa. I più scettici sono i tecnici: geologi e ingegneri. La valorizzazione del carbone nel Sulcis Iglesiente e quindi il piano “carbone pulito” è affidata alla Sotacarbo Spa, società a partecipazione mista (Enea, agenzia nazionale e Regione) il cui presidente è l’ingegner Mario Porcu, che è anche direttore generale della Carbosulcis. Un interno ma non troppo, insomma. Eppure ci sarebbero altre strade. Come i brevetti, per esempio quello internazionale sulla desolforazione del carbone: si pulisce il carbone e si ottiene un emendante, fertilizzante da vendere. Ma tutto è fermo dal 2009. “Le fughe in avanti ci preoccupano – dice Pietro Piras, geologo di 40 anni – perché questa accelerazione? Non vogliamo morire in una strettoia, come nella mattanza dei tonni”. E ancora: “Chiediamo solo ai politici, ai sindacati, e ai manager di nomina politica che abbiano lungimiranza. Solo questo e non mi sembra ci sia”. Ci sono anche altri progetti, curati all’interno della Carbosulcis come quello del “pompaggio ceneri e gessi nel retro taglio”, rallentati dalla burocrazia o da un’assicurazione per cui serve una fidejussione. “Manca la volontà dell’azienda – dicono- la licenza permette tante attività. E bisogna essere pronti all’alternativa secca: sì, oppure no”.