Il feuillieton politico dell’estate è finito. Dopo mesi di discussioni e di chiacchiere, della nuova legge elettorale, quella che aveva chiesto il capo dello Stato Giorgio Napolitano a più riprese, seguito a ruota dal presidente del Senato Renato Schifani, e proprio ieri dal presidente del consiglio Mario Monti, non c’è traccia. Ci sono, in commissione Affari Costituzionali, ben 44 diverse proposte di modifica del mitico Porcellum, ma niente che possa somigliare minimamente ad una sintesi. Dunque, come se nulla fosse successo. Di nuovo al punto di partenza. Ieri, alla riapertura dei giochi politici, quando i rappresentanti dei partiti a Palazzo Madama si sono riuniti nel comitato ristretto per decidere del testo illustrato del Pdl Lucio Malan e dal Pd Enzo Bianco, la montagna non ha partorito neppure il topolino. La nuova legge elettorale non c’è e non ci sarà neppure tra un po’. La volontà politica latita e forse serpeggia tra i partiti anche una pazza idea: ma se si tornasse a votare con il Porcellum? Chissà.
Intanto, il quadro appare nebuloso. E neanche poco. I punti di divergenza sono sostanzialmente due: le preferenze richieste dal centrodestra contro i collegi uninominali voluti dal centrosinistra, e il premio di maggioranza che il Pdl vorrebbe dato al partito e il Pd alla coalizione vincente. Così, se da un lato Malan ha provato a spiegare che “non è opportuno incoraggiare coalizioni fittizie”, riferendosi in primo luogo alla supposta coalizione di centrosinistra spaccata sin dalla scelta se appoggiare o meno il governo tecnico, dall’altro lo stesso presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini si domandava come, tecnicamente, il premio (che lui preferisce chiamare “di governabilità”) possa garantire stabilità se assegnato al primo partito scelto dagli italiani.
Si discute del sesso degli angeli, insomma, in assenza di uno straccio di accordo che segnali la reale volontà politica di arrivare a una nuova legge elettorale. Così si ripiega sulla classica melina. “Noi non sappiamo cosa vuole il Pdl”, contestava ieri la capogruppo democrat Anna Finocchiaro. “E’ evidente che in questa settimana c’è stato un dibattito molto acceso nel Pd, che è in difficoltà nel suo interno”, le rispondeva il vicepresidente pidiellino Gaetano Quagliariello. Ma entrambi sanno di non avere i numeri per scagliare la biblica prima pietra. Di certo non il Pdl che ieri è arrivato alla riunione assolutamente impreparato. E spaccato al suo interno sulla questione delle preferenze che nessuno vuole, tranne che la frangia più riottosa e antimontiana. “Il Pd sappia che in Parlamento c’è chi si batterà fino all’ultimo per introdurre nella nuova legge elettorale il sistema del voto di preferenza, che garantisce agli italiani la libertà di decidere direttamente da chi farsi rappresentare”, dichiaravano ieri in una nota Giorgia Meloni, Renato Brunetta, Guido Crosetto, Pino Galati, Viviana Beccalossi e Fabio Rampelli.
Un fronte che, come al solito, avrebbe dovuto essere ricondotto a più miti consigli dal Cavaliere, in una riunione convocata a Palazzo Grazioli e poi rimandata perché Berlusconi doveva essere interrogato dai magistrati palermitani. Così, ubi maior minor cessat, in assenza di indicazioni dall’alto i senatori pidiellini nel comitato ristretto non sapevano che pesci pigliare, facendo così il gioco del Pd che si guarda bene dal proporre una qualsiasi trattativa che possa sbloccare lo stallo. Nel partito, d’altra parte, c’è chi vorrebbe andare a votare il prima possibile per archiviare l’esperienza tecnica, come c’è invece chi vorrebbe lunga vita al governo Monti, o almeno alla sua agenda. E dunque la fine naturale della legislatura. Che, in fin dei conti, farebbe comodo anche a Berlusconi, la cui macchina elettorale fatica a ingranare ma che, al contempo, non scioglierà la prognosi della propria candidatura senza avere la certezza su quale sarà il sistema elettorale con cui si andrà a votare.
Tutti argomenti di un certo peso, che nulla però hanno a che fare con l’auspicata (da tutti, almeno a chiacchiere) stabilità del prossimo esecutivo, essendo più affini alla tutela del potere da parte di chi ne è ancora il titolare, commentava ieri con amarezza un senatore di lungo corso. E, alla fine, Vizzini ha battuto il pugno sul tavolo, trattando i senatori alla stregua di alunni indisciplinati: “Se nella prossima settimana non ci saranno novità, dopo aver informato il presidente Schifani, proporrò di tornare in commissione perché l’unica sede dove si può continuare questo dibattito è la sede plenaria dove si discute ma alla fine si vota anche”.
Facile a dirsi, ma più difficile a realizzarsi, visto che in commissione sono depositati 44 disegni di legge di riforma elettorale. Da quale si comincia? Si fa una riffa? Estrazione a sorte? L’idea di Vizzini è quella di ripartire dal testo di Malan e Bianco: “Certo, su alcuni punti c’è accordo e su altri no, e ci vorrebbe davvero un accordo politico”. Anche perché si rischia il bis delle riforme costituzionali: il pareggio nel voto, in cui nessuno vince. Ma su un punto Vizzini è fermo: “Qui serve un compromesso alto. Non vorrei che gli elettori pensassero che qui si cincischia perché in fondo il Porcellum sta bene a tutti. Anche perché io ho firmato il referendum per abolire questa legge elettorale, e sulla riforma ci sto mettendo la faccia”. Ma, si sa, l’elettore ha sempre ragione.