“Then I met Ridley Scott, and he let me dance…” è così, che verso la fine del suo incontro un po’ “wild” (selvaggio e informale) al cinema Lumière di Bologna, Rutger Hauer spiega ai suoi fan e ai giornalisti come ha trovato la fiducia necessaria per proseguire la carriera d’attore. «Prima di girare Blade Runner mi dicevo che se il cinema era davvero quello che avevo visto fino a quel momento, a me non fregava nulla di proseguire a farlo. Ma poi ho incontrato Ridley Scott e lui mi ha lasciato danzare…».
Olandese, sessantotto anni, oltre centotrenta film (fra grande e piccolo schermo) fra i quali, oltre al già citato Blade Runner, ricordiamo La leggenda del Santo bevitore, Furia cieca e The hitcher, Rutger Hauer il “Paul Newan olandese”, è figlio di attori drammatici, ma per un po’ il mondo della recitazione se lo era scordato. Indossasse un kimono nero e abitasse in lui l’anima di Manuel Fantoni potrebbe anche raccontarci la sua vita iniziando con «E poi, a quindici anni m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana…».
La bandiera non era liberiana, ma a quindici anni Hauer s’imbarcò davvero per seguire le orme del nonno (capitano di lungo corso) . Ma la prima particina arrivò nel 1967 (in tv) grazie ad uno sceneggiato medievale sulla vita di Ivanhoe. Faceva un cavaliere. Sa ancora come si fa.
Non vorrebbe, perché dopotutto «It was more than thirty years ago.. » ma la chiacchierata attorno al mondo del cinema fatta di botta e risposta coi presenti, tocca inevitabilmente il film tratto dal romanzo di Philip Dick: «Vi dico la verità, la faccenda del monologo finale… bè insomma, io ne ho segato una buona parte rispetto quello che c’era scritto sul copione…» rivela Rutger e prosegue nel silenzio generale «…e poi la frase, quella delle lacrime nella pioggia… bè quella l’ho scritta io».
La platea tace mentre lui ricorda i giorni in cui veniva girata quella sequenza «Avevamo quasi finito le riprese, e per il giorno successivo era previsto uno sciopero dei lavoratori del cinema. Così, stavamo girando ininterrottamente da 25 ore in modo da completare il film. Poi, stremato, ad un certo punto saluto tutti e dico che sono stufo e che me ne vado a dormire. Ma la volete sapere una cosa buffa? Niente sciopero l’indomani. Anzi mi chiamano dal set per dirmi se voglio finire la scena o sistemarla, e così io vado e faccio il monologo come pareva a me…».
La cosa bella di questa strana confessione/conferenza consiste nell’assoluta irrilevanza che assume l’ipotesi che Rutger ci stia raccontando l’esatta verità (secondo noi è così) o magari stia un po’ ricamando sui ricordi, a fronte della strepitosa maestria con la quale conferisce a quegli stessi ricordi un abito di rivelazione e conduce la chiacchierata nei sentieri a lui più congeniali. Una chiacchierata che spazia da domande un po’ standard quali l’implacabile «Cosa consiglieresti a chi vuole fare cinema?» alla quale Hauer offre risposte vagamente surreali del tipo “Just do it”, fino alle puntualizzazioni sullo stato del cinema e sulle sale atte ad ospitarlo, e lì Hauer ci dà dentro. «Oggi grazie a internet chiunque può fare un film e metterlo sotto al naso di un pubblico, questo è fantastico. E guardate che la gente è furba, statene certi, capisce subito se in quel prodotto c’è qualità e mestiere» esordisce tessendo le lodi della rete delle sue infinite potenzialità se sei capace di fare “profiling” del tuo spazio e “marketing” del tuo prodotto.
Il discorso cambia però se si ragiona in termini di fruizione, perché Hauer non ha peli sulla lingua e se gli chiedi che ne sarà del futuro delle sale cinematografiche lui risponde che «Andare al cinema è bello e so che c’è molta gente che ama vedere un film con altra gente attorno, ma io sto bene anche da solo, a casa mia. Forse, se non si troveranno altre soluzioni urgenti, il futuro del cinema è questo; un uomo che fa click nel propria stanza. La società sta cambiando velocemente, il cinema pure; chi lo fa e chi lo guarda dovrà adeguarsi ai cambiamenti».
Sorride Hauer, mentre a sua insaputa – sullo schermo alle sue spalle – compaiono le immagini di lui giovane in Blade Runner, un gioco di specchi in carne umana ci propone il replicante sotto la pioggia che rivela di aver visto cose “…che voi umani…” e la sua incarnazione appunto umana, più di trent’anni dopo. Prende ritmo mentre slalomeggia, sostanzialmente senza rispondere, fra quesiti che lo interrogano sulla natura delle donne o su oscure trame massoniche di cui abbiamo capito poco, e resta pietrificato di fronte a chi gli chiede: «Quali sono i suoi valori, i suoi principi?». Impugna il microfono da frontman consumato e cammina spesso sul filo della tentazione di giocare con la narrazione, ma quando decide accelera in modo sublime e ci spiega che per lui «Il cinema è l’unica possibilità di raccontare qualcosa che sta fuori da quella storia che stai raccontando, una vicenda che vive e le si muove accanto, e che è fuori dallo schermo». E se parla di movimento non è un caso, ci tiene infatti a specificare il concetto: «Cinema è movimento, non parola, io ho studiato dei copioni ma ho anche scritto dei silenzi e dei movimenti».
Ma aveva ragione il buon John Carpenter quando diceva «People wanna get scared, but not too much» e Rutger mostra di conoscere le regole del palcoscenico, tornando al racconto più divertente quando, a seguito di una domanda, racconta il suo rapporto con Sam Peckinpah ai tempi di Furia cieca… «Mi dirigeva con le sopracciglia, io gli dicevo farei così e colà, lui me lo faceva fare e poi diceva, “ok teniamo l’altra”. Lo adoravo». Circa il suo impegno attuale risulta evidente quanto abbia a cuore il festival cui ha dato vita in quel di Milano (I’ve Seen Films – International Film Festival). Una rassegna cinematografica internazionale che si occupa principalmente di premiare la creatività e la fantasia tecnologica dell’arte del cinema e del cortometraggio, sfidando la creatività dei giovani filmmaker e invitandoli a mostrare “cose che voi umani non potreste immaginarvi”.
Ma che cos’è allora per Rutger Hauer il suo mestiere e cosa sarà quello stesso mestiere per coloro che verranno?
«Il mio mestiere è un’arte che richiede tempo e dedizione per essere appresa, ma non è una roba sacra, irraggiungibile. Chi fa cinema oggi vive un’epoca di cambiamento radicale, di confusione vorrei dire. Ma il caos è da sempre un amico fedele della genialità, chi ha qualcosa da dire, grazie al caos può trovare la possibilità di dirla in misura uguale – quando non maggiore – rispetto ad epoche più tranquille». Cineasti, l’apocalisse è propizia, parola di Roy Batty (replicante e gentiluomo).