E’ arrivata oggi la sentenza per l’omicidio del cooperante italiano Vittorio Arrigoni, ucciso nell’aprile del 2011 nella Striscia di Gaza, enclave palestinese controllata dagli islamici di Hamas. Il processo si è svolto dinanzi a un tribunale militare controllato da Hamas: quattro le condanne di cui due ergastoli per Mahmud al-Salfiti e Tamer al-Hassasna, poco più che ventenni, riconosciuti colpevoli del rapimento e dell’omicidio dell’attivista italiano. Oltre al carcere, i condannati dovranno scontare un periodo di lavori forzati, ma non la pena di morte, grazie all’opposizione manifestata dalla famiglia di Arrigoni. La Corte militare di Gaza avrebbe infatti potuto comminare la pena capitale ai due imputati principali, ma si sarebbe astenuta dal farlo tenendo conto della decisione che i familiari avevano espresso fin dall’ inizio del processo, in omaggio alle convinzioni dello stesso Vittorio. Secondo la tradizione islamica, i congiunti possono avere voce in capitolo sulla sorte degli assassini d’un parente.
A 10 anni è stato condannato invece Khader Jiram, vicino di casa di Arrigoni, accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer, e un anno Amer Abu Hula, che aveva messo a disposizione la sua abitazione al commando. Dopo il rapimento Arrigoni era apparso ferito in un filmato in cui lo si additava come nemico dei costumi islamici e in cui si chiedeva a Hamas la liberazione di un capo salafita iper-integralista arrestato nella Striscia nei mesi precedenti.
Ma prima della scadenza dell’ultimatum l’attivista era già stato assassinato. Il giorno dopo la polizia di Hamas aveva trovato il suo corpo senza vita nell’appartamento dove era stato nascosto. Secondo un perizia, sarebbe stato strangolato con filo di ferro. Positivi, dopo le critiche rivolte alla procedura e all’iter delle indagini, appaiono intanto i primi commenti sulla sentenza delle organizzazioni locali per i diritti civili, che hanno seguito da vicino le varie udienze per mesi.