Se Mediobanca soffre, i suoi azionisti, il cosiddetto salotto buono, non stanno certo meglio. Tanto che nonostante le incognite della crisi e il crollo dei profitti, il consiglio di amministrazione di Piazzetta Cuccia ha deciso di distribuire loro un dividendo. Molto, ma molto meno degli oltre 146 milioni di euro dell’anno scorso, certo, ma si tratta pur sempre di 43 milioni di euro che l’amministratore delegato Alberto Nagel ha definito “più che simbolico” ricordando al contempo che la somma “è un terzo della cifra distribuita negli ultimi due anni, ma è la dimostrazione tangibile del fatto che la banca, anche in momenti difficili, può pagare dividendo agli azionisti” in un anno in cui distribuire cedole “non è pratica comune nelle banche italiane”. E i grandi soci della banca d’affari non disdegneranno certo, anche perché in casa loro le cose non sono certo rose e fiori.
UNICREDIT. Partendo dal più importante in ordine di peso, con accantonamenti per crediti inesigibili in aumento e utile netto in calo, lo stato di salute del primo azionista di Mediobanca, Unicredit, non è certo dei migliori nonostante il tentativo dell’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, di ridurre i costi di gestione. La più internazionale delle banche italiane è invischiata fino al collo in tutte le partite più scottanti della finanza italiana, a partire dal disastroso salvataggio di Fonsai a opera di Unipol. Un’operazione che è riuscita a ridurre le perdite per i finanziatori dei Ligresti (categoria che, oltre a Unicredit, include la stessa Mediobanca) ma non ad annullarle.
Tutto lascia dunque presumere che anche nei prossimi trimestri l’istituto di piazza Cordusio dovrà aumentare gli accantonamenti che, al 30 giugno scorso, erano cresciuti del 62% su base annuale a 1,9 miliardi di euro. Nell’era di Alessandro Profumo erano infatti stati concessi prestiti 370 milioni di prestiti alle varie holding dei Ligresti, Sinergia, Imco e Premafin, di cui 186 milioni sono in mano a curatori fallimentari, mentre altri 185 sono stati messi in sicurezza. Seppur in maniera minore, Unicredit è esposta anche verso la Sopaf della famiglia Magnoni, di cui ha recentemente chiesto il fallimento.
Un altro dossier doloroso per la banca è la quota nella Roma calcio, un’eredità di Capitalia che né Profumo né Ghizzoni sono riusciti a smobilizzare. Unicredit detiene infatti ancora il 40% di Neep Roma Holding, società che controlla il 78% di AS Roma e che per la parte restante fa capo a un gruppo americano guidato da Thomas Dibenedetto. Di recente, infine, la banca milanese è finita nel mirino della giustizia americana – almeno secondo quanto scritto dall’autorevole Financial Times – per le transazioni effettuate dalla controllata tedesca Hvb con l’Iran.
GENERALI. Una volta il fiore all’occhiello e cassaforte della finanza italiana in Europa, il Leone di Trieste che ha in mano il 2% di Mediobanca e di cui Piazzetta Cuccia è il primo azionista, ha perso gran parte della propria attrattività. La recente sostituzione di Giovanni Perissinotto con Mario Greco è stata dettata da logiche di potere ma è stata giustificata dagli azionisti con la scarsa redditività della compagnia assicurativa e la conseguente deludente performance borsistica dei titoli. Pur non essendo il vero motivo della defenestrazione di Perissinotto, il cattivo andamento di Generali è reale e certificato dai conti.
Non è un caso che una delle prime importanti decisioni prese da Greco sia stata quella di provare a vendere asset importanti, nel tentativo di adempiere ai requisiti richiesti dai nuovi parametri internazionali di Solvency II (stimati da analisti e banchieri in 5,5 miliardi di euro). Citigroup è stata recentemente ingaggiata per la vendita della divisione Usa attiva nel settore della riassicurazione vita (Generali US) e JP Morgan e Mediobanca sono stati incaricati di trovare compratori per la controllata svizzera BSI. Generali deve inoltre prepararsi per l’eventuale acquisizione nel 2014 della quota del 49% nella joint venture PPF, che potrebbe costare almeno 2,5 miliardi di euro, anche se Generali non ha confermato un tale scenario. Lo scorso luglio, intanto, Moody’s ha tagliato il rating del gruppo assicurativo a Baa1 come conseguenza della sua esposizione al rischio sovrano dell’Italia, aggiungendo che potrebbe fare ulteriori tagli se la situazione dovesse peggiorare.
PIRELLI. Fra i pochi soci di Mediobanca che godono di buona salute c’è Pirelli che, non a caso, è anche uno dei pochi soci al di fuori del settore finanziario. La crescita nei mercati emergenti è robusta e i titoli della Bicocca godono del favore del mercato. I problemi non mancano però neanche qui: se invece che concentrare l’attenzione sulla realtà industriale si guarda alla catena di controllo che sta a monte il quadro cambia radicalmente.
La Camfin di Marco Tronchetti Provera, che controlla il produttore di pneumatici con una quota diretta di solo il 6%, e della famiglia Malacalza ha gravi problemi finanziari, sulla cui soluzione i due maggiori soci si stanno dando una battaglia senza esclusione di colpi. Il mese scorso ha fatto scalpore il carteggio segreto Tronchetti-Malacalza, in cui il primo sosteneva di voler far fronte ai problemi di rifinanziamento facendo ricorso a nuovo debito, mentre il secondo spingeva per un aumento di capitale. Per ora la guerra combattuta ai piani alti non ha influito negativamente su Pirelli ma, se dovesse durare ancora a lungo, è inevitabile che i problemi avranno ripercussioni anche sulla società a valle.
FINSOE. E’ un socio a distanza la holding delle coop che controlla Unipol (altro debitore di Mediobanca) che quest’anno è balzata agli onori delle cronache per l’acquisizione-salvataggio della Fonsai dei Ligresti (e dei crediti vantati da Mediobanca nei confronti del costruttore siciliano). La finanziaria delle coop emiliane è così diventata il socio di maggioranza del nuovo polo assicurativo ma per raggiungere questo obiettivo ha percorso la strada più onerosa. Quella di un’operazione imperniata sull’acquisizione di Premafin, la scatola superindebitata dei Ligresti, invece che su un’Opa diretta su Fonsai, una compagnia in grande sofferenza per la cattiva gestione ma di indubbio valore. E che, in dote, ha portato anche la partecipazione della famiglia siciliana in Mediobanca. Quota che però, per motivi di antitrust, è stata sterilizzata, cioè non esercita i diritti di voto, in attesa di essere venduta. Possibilmente senza generare nuove perdite .
PESENTI, LUCCHINI, BERLUSCONI, BENETTON E GAVIO. Non sembra navigare in acque calmissime Italmobiliare, la finanziaria della famiglia Pesenti che ha chiuso il semestre con un rosso di 51,3 milioni di euro. Andamento non aiutato dalla situazione della controllata Italcementi che al 30 giugno di quest’anno segnava un rosso di 37 milioni. D’altra parte le notizie di cronaca parlano chiaro: alcuni operai dell’ex cementificio di Scala di Giocca (Sardegna) ieri sono saliti sul tetto del Duomo di Sassari per protestare contro l’imminente licenziamento seguito alla chiusura dello stabilimento. “Si cercano soluzioni per i lavoratori in cassa integrazione, ma la crisi finora non ha consentito di individuare alternative”, è stata la risposta dell’azienda. Non va meglio alla Sinpar della famiglia Lucchini, gli ex re dell’acciaio che hanno chiuso il 2011 con una perdita di oltre 2 milioni di euro contro l’utile di 422mila euro del 2010. E non brilla certo neanche la Fininvest dei Berlusconi, per la quale il 2011, anno della sentenza sul Lodo Mondadori, si era chiuso profitti per 7,5 milioni di euro, il 95% in meno dei 160 milioni dell’anno prima. Sui conti della holding avevano pesato la svalutazione effettuata dal gruppo Mediolanum (altro grande socio di Piazzetta Cuccia) del valore dei titoli governativi greci detenuti in portafoglio, ma soprattutto la svalutazione del valore della partecipazione in Mediobanca che ha pesato sia su Fininvest che sul gruppo bancassicurativo guidato da Ennio Doris per complessivi 74,8 milioni di competenza del Biscione. A luci e ombre anche i conti della Edizione dei Benetton, che l’anno scorso, forte delle partecipazioni in autostrade, aeroporti e autogrill, ha realizzato 300 milioni di utili (+15% sul 2010), ma che ha sempre un fardello di oltre 12 miliardi di debiti. Non va benissimo neanche ai Gavio la cui cassaforte di famiglia, Aurelia, l’anno scorso ha totalizzato un rosso di 13,5 milioni. Perdita che non ha frenato la passione dei signori delle autostrade del nord Italia – in questi mesi in lotta col gruppo Salini per il controllo di Impregilo – per Mediobanca nella quale hanno investito altri 22 milioni di euro.
I FRANCESI. Quanto alla componente azionaria transalpina, che ha in mano quasi l’11% della banca d’affari, se i francesi di Groupama non brillano (87 milioni di rosso a metà anno) anche per la nuova svalutazione della quota in Mediobanca (39 milioni di euro nel primo semestre da aggiungere ai 200 milioni del 2011), altrettanto non si può dire di Vincent Bollorè. Il raider bretone attivissimo nei media e nella logistica portuale africana che dei soci francesi di Mediobanca è il capofila, infatti, nei mesi scorsi ha accettato una proposta dal gruppo giapponese Dentsu al quale ha venduto il 26,4% che aveva nella società di comunicazione inglese Aegis. L’incasso totale è di 915 milioni di euro, con una plusvalenza contabile dell’ordine di 450 milioni. Denaro contante sul cui futuro utilizzo molti si stanno interrogando.
di Giorgio Faunieri e Gaia Scacciavillani