Il bluff di Marchionne continua. L’annuncio che “al momento opportuno” Fiat investirà negli stabilimenti italiani del gruppo e che si punterà sull’export, rischia di andare poco lontano. Non c’è un solo produttore europeo che si azzarda ad assemblare vetture in Europa per venderle in Usa (per di più con un cambio euro\dollaro a 1,3). Ma la realtà è che non tutte le colpe sono di Marchionne che ha utilizzato il costo del lavoro come problema italiano in modo strumentale, per deviare l’attenzione dal problema centrale. Tanto più si discuteva di produttività del lavoro, tanto più si nascondevano i problemi veri del settore.
Tanto per essere chiari: la Fiat non sarebbe produttiva e profittevole nemmeno se ci fossero gli schiavi. Con una aggravante, che in qualche misura deve far pensare. Molti imprenditori metalmeccanici hanno appoggiato la lotta di classe della Fiat su orario di lavoro e salario non perché fosse un modello adeguato per rispondere alla crisi del settore, ma perché tornava utile per imporre condizioni di lavoro restrittive. In qualche misura hanno usato Fiat per un tornaconto personale. Infatti, dopo sono arrivate la riforma del marcato del lavoro e la manomissione dell’articolo 18. Questa è la miseria della classe dirigente italiana. Altro che le parole di responsabilità di Della Valle.
Quando ragioniamo del settore manifatturiero dell’auto, dobbiamo comprendere esattamente di cosa stiamo parlando. Discutiamo di Fiat come se fosse una multinazionale più o meno internazionalizzata, in realtà dobbiamo fare uno sforzo di prospettiva. Indiscutibilmente la Fiat in Italia è una grande impresa, ma a livello internazionale non è solo una piccola società comparata ad altre aziende del settore, ma non ha saputo creare le condizioni per diventare una impresa con grandi economie di scala. Infatti solo a determinate condizioni tecniche era ed è possibile rimanere sul mercato. Se ci pensiamo bene anche Marchionne aveva provato a realizzare delle economie di scala sufficienti per misurarsi con il mercato internazionale.
L’INTERESSE PER OPEL. Appena iniziata la crisi economica, subito dopo l’operazione negli Stati Uniti, Marchionne aveva cercato di costruire più di una alleanza con una società automobilistica tedesca (Opel). Marchionne disse al governo (di centrodestra) che non voleva nessun incentivo per l’acquisto di nuove autovetture perché erano dannosi per il mercato, perché aveva compreso perfettamente che stava cambiando in profondità il mercato dell’auto e solo a determinate condizioni era possibile realizzare degli investimenti. Contemporaneamente aveva tentato di agganciare un Paese che stava diventando uno dei due player internazionali del settore automotive. La Germania aveva cominciato a conquistare quote di mercato e costruito una tale forza di fuoco che avrebbe messo in ginocchio tutti gli altri Paesi: con oltre 6 milioni di auto prodotte si possono abbassare i costi di produzione in misura ben più alta di un paese che a mala pena arriva a 600 mila auto prodotte.
Il settore automotive (auto, pulman, trattori, movimentazione terra ed altri), in particolare l’auto, indipendentemente dagli aiuti diretti e indiretti alle imprese automobilistiche sotto forma di incentivi ai consumi accumulati tra il 1999 e il 2009, ha ridimensionato il proprio peso percentuale sull’intera produzione industriale. Il ridimensionamento non è un fatto aneddotico, piuttosto la tendenza dei settori maturi e di scala ogni qualvolta si affacciano nuove produzioni. Quello che sorprende di più è la velocità e l’intensità del cambiamento del settore rispetto alla produzione manifatturiera tra il 1999 e il 2008.
IL BLUFF. La caduta della domanda del 2011 e del 2012 era più che prevedibile date le politiche restrittive adottate da tutti i Paesi europei. Nell’area della triade industriale il settore automotive è passato dal 19,2% al 14,6% (-23,96%); l’Europa dal 17,6% al 12,5% (-28,98%); il nord America dal 16,2% al 10% (-38%). Diversamente da queste aree, il Giappone ha manifestato una crescita del peso percentuale del settore nell’ambito della produzione manifatturiera del 7,09%, dal 28,2% al 30,2%, anche se nel corso degli ultimi 2 anni ha perso 3 punti percentuali, da 33,3% a 30,2%1. Se queste sono le tendenze, il ridimensionamento del settore non solo è inevitabile, ma muta le politiche delle imprese: da un lato si manifesta la necessità di produrre vetture di nuova generazione a basso consumo ed impatto ambientale per i mercati rigidi dei paesi ricchi; dall’altra la necessità di realizzare vetture a basso costo per i mercati a ridotto tasso di motorizzazione.
Queste due linee di tendenza devono fare i conti con una recessione economica e con la compressione dei consumi dei beni durevoli senza precedenti. Quindi, la ristrutturazione del settore in termini di dimensione di scala (adeguata) e di tipologia di prodotto è ineluttabile, ed è l’unica condizione per rimanere sul mercato. Tra l’altro, essendo l’auto un settore maturo e soggetto a domanda di sostituzione, il saldo finale dell’occupazione sarà obbligatoriamente negativo. Molti economisti dimenticano che un aumento del reddito modifica i consumi, non nel senso che si consuma di più, ma che si consumano cose diverse.
Ecco il nodo della questione: tutti sapevano che il mercato dell’auto sarebbe andato incontro ad una grande crisi di ristrutturazione, ma nessuno ha pensato di guidare il processo di razionalizzazione a livello europeo cercando di salvare quanto di buono esisteva. È vero che la Germania non voleva una ristrutturazione europea (il no della Merkel all’operazione Fiat-Opel è più che mai eloquente), ma gli altri produttori e sindacati avrebbero dovuto affrontare seriamente il problema. La Germania ha fatto in modo che fosse il mercato a selezionare i player, cioè ha fatto in modo che solo le società tedesche potessero rimanere sul mercato. Infatti, solo le società tedesche possono permettersi un guerra dei prezzi rinunciando ad un parte dei profitti, sapendo bene che nessuna altra società europea può seguirli su questa strada. La Fiat come le società francesi fanno fatica a coprire i propri costi fissi.
Più semplicemente, l’eccesso di capacità produttiva e la compressione della domanda tendenziale del settore, causata anche dagli infelici sussidi del 2009, impone la predisposizione di una riforma della struttura produttiva, da settori maturi a settori emergenti. In qualche modo le barriere all’entrata (nel settore delle automotive) sono più alte, cioè solo a determinate condizioni-dimensioni è possibile rimanere sul mercato. Sostanzialmente siamo in presenza di un oligopolio-monopolio tecnico: poche società coprono l’intera domanda.
L’OCCUPAZIONE. Se consideriamo il lavoro diretto e indiretto (distribuzione, finanza, ecc.) il settore occupa quasi 13 milioni di lavoratori (Europa a 27), assieme alla maggiore quota di mercato a livello internazionale. La produzione complessiva dell’Ue a 27 sul totale è pari al 25,5%, Cina al 23%, Nafta (Nord America e Messico) 14,6%, Giappone al 13,2%, America Latina 6,2%, con una a produzione che oscilla tra i 16,7 milioni e 17,7 milioni di unità, con una capacità di utilizzo degli impianti media del 65%, rispetto al target “typical profitably zone” del 79%. La principale differenza del settore dell’auto europeo da quello di altre aree economiche è il minor grado di concentrazione.
Infatti il settore non si limita all’assemblaggio e alla produzione di motori, ma opera nei testing, distribuzione e vendita, manutenzione, riciclo e smaltimento dei mezzi. Inoltre, i componenti automotive sono realizzati in strutture verticalmente integrate con la casa madre. Il tratto distintivo per tutte le case automotive è la separazione del braccio finanziario da quello produttivo, che affianca i “consumatori”, il network, il leasing activities. Inoltre, la componente finanziaria realizza un “valore” superiore rispetto al comparto produttivo, come se la produzione fosse di supporto alla finanza, anche se in termini occupazionali e strumentali la produzione d’auto rimane il core business.
L’EVOLUZIONE DEL MERCATO. Il confronto tra i principali Paesi-competitors europei del settore permette di individuare il soggetto (economico e politico) driver della necessaria ristrutturazione del settore delle automotive. Non tutti si sono accorti, ma questa ristrutturazione il mercato l’ha già quasi fatta. La Germania è passata dal 29,93 al 32,50%; la Francia dal 20,45% al 14,44%; l’Italia dal 7,81% al 5,54%. Sostanzialmente Germania e Giappone, in misura minore gli USA, sono i principali players del settore, con attività e dimensioni che condizionano la ristrutturazione (necessaria) del settore. L’analisi dei brevetti del settore, cioè la tutela legale per le nuove produzioni, è abbastanza eloquente: i brevetti europei (Germania) sono pari al 55%, Giappone 22,8%, Nafta 16,0%. Più in particolare la Germania è l’unico paese che è riuscito a mantenere l’utilizzo degli impianti sopra alla soglia critica del 79%, cioè la “typical profitability zone”, sia prima della crisi e sia durante la crisi.
Approfondendo il confronto tra Germania e Italia del settore è possibile cogliere il vantaggio della Germania rispetto a tutti gli altri paesi, in particolare dell’Italia. Infatti, in Germania l’automotive sul complesso della produzione manifatturiera pesa per l’11,80%, mentre in Italia vale il 3,60%. Quindi la crisi della Fiat è una crisi industriale di struttura, non di mancati investimenti.
GLI INVESTIMENTI MANCATI. Circa i presunti mancati investimenti della Fiat non c’è da sorprendersi come non c’è da sorprendersi degli investimenti realizzati dalle imprese tedesche del settore. Utilizzando Keynes si può dire: non possiamo chiedere alle imprese in un periodo di crisi di sviluppare dei nuovi investimenti. La Germania ha tutto l’interesse a sviluppare degli investimenti in nuovi modelli e nuovi prodotti. Ogni investimento alza le barriere all’entrata del settore e garantisce un profitto legato alla conquista di nuovi mercati liberati dai concorrenti più deboli. La Fiat se investisse non farebbe altro che produrre perdite. La sua dimensione di scala non gli permette di ammortizzare questi investimenti nella misura delle imprese tedesche. Fin dall’inizio era evidente che Fabbrica Italia era una presa per i fondelli.
Cosa si potrebbe fare? Forse è giunto il momento di coinvolgere la Commissione Europea per guidare il necessario processo di ristrutturazione del settore delle automotive, in particolare quello dell’auto. Se l’Europa non interviene come agente economico, l’unico equilibrio del settore è quello determinato dal dumping fiscale e salariale che si realizza nei paesi. Sostanzialmente la ristrutturazione si realizza non sul principio della corretta allocazione delle risorse (scarse) e dei vantaggi comparati, ma agirebbe solo dal lato dei costi fiscali. Un esito che, paradossalmente, allontana dal mercato tutte le case automobilistiche. Per queste ragioni l’Europa dovrebbe assumere un ruolo guida del necessario processo di ristrutturazione del settore, sulla base delle competenze, delle economie di scala, nonché dell’orizzonte europeo in materia di green economy. In oltre, l’intervento della Commissione permetterebbe di uscire dalle logiche locali, statali e fiscali, consegnando il progetto automotive alla politica industriale europea, evitando di mettere in competizione le diverse società automobilistiche sulla base dei diritti dei lavoratori.
di Andrea Di Stefano e Roberto Romano
Economia & Lobby
La crisi della Fiat e il bluff di Marchionne. I mancati investimenti? Non c’entrano
Il bluff di Marchionne continua. L’annuncio che “al momento opportuno” il Lingotto investirà negli stabilimenti italiani del gruppo e che si punterà sull’export, rischia di andare poco lontano. Non c’è un solo produttore europeo che si azzarda ad assemblare vetture in Europa per venderle in Usa (per di più con un cambio eurodollaro a 1,3)
Il bluff di Marchionne continua. L’annuncio che “al momento opportuno” Fiat investirà negli stabilimenti italiani del gruppo e che si punterà sull’export, rischia di andare poco lontano. Non c’è un solo produttore europeo che si azzarda ad assemblare vetture in Europa per venderle in Usa (per di più con un cambio euro\dollaro a 1,3). Ma la realtà è che non tutte le colpe sono di Marchionne che ha utilizzato il costo del lavoro come problema italiano in modo strumentale, per deviare l’attenzione dal problema centrale. Tanto più si discuteva di produttività del lavoro, tanto più si nascondevano i problemi veri del settore.
Tanto per essere chiari: la Fiat non sarebbe produttiva e profittevole nemmeno se ci fossero gli schiavi. Con una aggravante, che in qualche misura deve far pensare. Molti imprenditori metalmeccanici hanno appoggiato la lotta di classe della Fiat su orario di lavoro e salario non perché fosse un modello adeguato per rispondere alla crisi del settore, ma perché tornava utile per imporre condizioni di lavoro restrittive. In qualche misura hanno usato Fiat per un tornaconto personale. Infatti, dopo sono arrivate la riforma del marcato del lavoro e la manomissione dell’articolo 18. Questa è la miseria della classe dirigente italiana. Altro che le parole di responsabilità di Della Valle.
Quando ragioniamo del settore manifatturiero dell’auto, dobbiamo comprendere esattamente di cosa stiamo parlando. Discutiamo di Fiat come se fosse una multinazionale più o meno internazionalizzata, in realtà dobbiamo fare uno sforzo di prospettiva. Indiscutibilmente la Fiat in Italia è una grande impresa, ma a livello internazionale non è solo una piccola società comparata ad altre aziende del settore, ma non ha saputo creare le condizioni per diventare una impresa con grandi economie di scala. Infatti solo a determinate condizioni tecniche era ed è possibile rimanere sul mercato. Se ci pensiamo bene anche Marchionne aveva provato a realizzare delle economie di scala sufficienti per misurarsi con il mercato internazionale.
L’INTERESSE PER OPEL. Appena iniziata la crisi economica, subito dopo l’operazione negli Stati Uniti, Marchionne aveva cercato di costruire più di una alleanza con una società automobilistica tedesca (Opel). Marchionne disse al governo (di centrodestra) che non voleva nessun incentivo per l’acquisto di nuove autovetture perché erano dannosi per il mercato, perché aveva compreso perfettamente che stava cambiando in profondità il mercato dell’auto e solo a determinate condizioni era possibile realizzare degli investimenti. Contemporaneamente aveva tentato di agganciare un Paese che stava diventando uno dei due player internazionali del settore automotive. La Germania aveva cominciato a conquistare quote di mercato e costruito una tale forza di fuoco che avrebbe messo in ginocchio tutti gli altri Paesi: con oltre 6 milioni di auto prodotte si possono abbassare i costi di produzione in misura ben più alta di un paese che a mala pena arriva a 600 mila auto prodotte.
Il settore automotive (auto, pulman, trattori, movimentazione terra ed altri), in particolare l’auto, indipendentemente dagli aiuti diretti e indiretti alle imprese automobilistiche sotto forma di incentivi ai consumi accumulati tra il 1999 e il 2009, ha ridimensionato il proprio peso percentuale sull’intera produzione industriale. Il ridimensionamento non è un fatto aneddotico, piuttosto la tendenza dei settori maturi e di scala ogni qualvolta si affacciano nuove produzioni. Quello che sorprende di più è la velocità e l’intensità del cambiamento del settore rispetto alla produzione manifatturiera tra il 1999 e il 2008.
IL BLUFF. La caduta della domanda del 2011 e del 2012 era più che prevedibile date le politiche restrittive adottate da tutti i Paesi europei. Nell’area della triade industriale il settore automotive è passato dal 19,2% al 14,6% (-23,96%); l’Europa dal 17,6% al 12,5% (-28,98%); il nord America dal 16,2% al 10% (-38%). Diversamente da queste aree, il Giappone ha manifestato una crescita del peso percentuale del settore nell’ambito della produzione manifatturiera del 7,09%, dal 28,2% al 30,2%, anche se nel corso degli ultimi 2 anni ha perso 3 punti percentuali, da 33,3% a 30,2%1. Se queste sono le tendenze, il ridimensionamento del settore non solo è inevitabile, ma muta le politiche delle imprese: da un lato si manifesta la necessità di produrre vetture di nuova generazione a basso consumo ed impatto ambientale per i mercati rigidi dei paesi ricchi; dall’altra la necessità di realizzare vetture a basso costo per i mercati a ridotto tasso di motorizzazione.
Queste due linee di tendenza devono fare i conti con una recessione economica e con la compressione dei consumi dei beni durevoli senza precedenti. Quindi, la ristrutturazione del settore in termini di dimensione di scala (adeguata) e di tipologia di prodotto è ineluttabile, ed è l’unica condizione per rimanere sul mercato. Tra l’altro, essendo l’auto un settore maturo e soggetto a domanda di sostituzione, il saldo finale dell’occupazione sarà obbligatoriamente negativo. Molti economisti dimenticano che un aumento del reddito modifica i consumi, non nel senso che si consuma di più, ma che si consumano cose diverse.
Ecco il nodo della questione: tutti sapevano che il mercato dell’auto sarebbe andato incontro ad una grande crisi di ristrutturazione, ma nessuno ha pensato di guidare il processo di razionalizzazione a livello europeo cercando di salvare quanto di buono esisteva. È vero che la Germania non voleva una ristrutturazione europea (il no della Merkel all’operazione Fiat-Opel è più che mai eloquente), ma gli altri produttori e sindacati avrebbero dovuto affrontare seriamente il problema. La Germania ha fatto in modo che fosse il mercato a selezionare i player, cioè ha fatto in modo che solo le società tedesche potessero rimanere sul mercato. Infatti, solo le società tedesche possono permettersi un guerra dei prezzi rinunciando ad un parte dei profitti, sapendo bene che nessuna altra società europea può seguirli su questa strada. La Fiat come le società francesi fanno fatica a coprire i propri costi fissi.
Più semplicemente, l’eccesso di capacità produttiva e la compressione della domanda tendenziale del settore, causata anche dagli infelici sussidi del 2009, impone la predisposizione di una riforma della struttura produttiva, da settori maturi a settori emergenti. In qualche modo le barriere all’entrata (nel settore delle automotive) sono più alte, cioè solo a determinate condizioni-dimensioni è possibile rimanere sul mercato. Sostanzialmente siamo in presenza di un oligopolio-monopolio tecnico: poche società coprono l’intera domanda.
L’OCCUPAZIONE. Se consideriamo il lavoro diretto e indiretto (distribuzione, finanza, ecc.) il settore occupa quasi 13 milioni di lavoratori (Europa a 27), assieme alla maggiore quota di mercato a livello internazionale. La produzione complessiva dell’Ue a 27 sul totale è pari al 25,5%, Cina al 23%, Nafta (Nord America e Messico) 14,6%, Giappone al 13,2%, America Latina 6,2%, con una a produzione che oscilla tra i 16,7 milioni e 17,7 milioni di unità, con una capacità di utilizzo degli impianti media del 65%, rispetto al target “typical profitably zone” del 79%. La principale differenza del settore dell’auto europeo da quello di altre aree economiche è il minor grado di concentrazione.
Infatti il settore non si limita all’assemblaggio e alla produzione di motori, ma opera nei testing, distribuzione e vendita, manutenzione, riciclo e smaltimento dei mezzi. Inoltre, i componenti automotive sono realizzati in strutture verticalmente integrate con la casa madre. Il tratto distintivo per tutte le case automotive è la separazione del braccio finanziario da quello produttivo, che affianca i “consumatori”, il network, il leasing activities. Inoltre, la componente finanziaria realizza un “valore” superiore rispetto al comparto produttivo, come se la produzione fosse di supporto alla finanza, anche se in termini occupazionali e strumentali la produzione d’auto rimane il core business.
L’EVOLUZIONE DEL MERCATO. Il confronto tra i principali Paesi-competitors europei del settore permette di individuare il soggetto (economico e politico) driver della necessaria ristrutturazione del settore delle automotive. Non tutti si sono accorti, ma questa ristrutturazione il mercato l’ha già quasi fatta. La Germania è passata dal 29,93 al 32,50%; la Francia dal 20,45% al 14,44%; l’Italia dal 7,81% al 5,54%. Sostanzialmente Germania e Giappone, in misura minore gli USA, sono i principali players del settore, con attività e dimensioni che condizionano la ristrutturazione (necessaria) del settore. L’analisi dei brevetti del settore, cioè la tutela legale per le nuove produzioni, è abbastanza eloquente: i brevetti europei (Germania) sono pari al 55%, Giappone 22,8%, Nafta 16,0%. Più in particolare la Germania è l’unico paese che è riuscito a mantenere l’utilizzo degli impianti sopra alla soglia critica del 79%, cioè la “typical profitability zone”, sia prima della crisi e sia durante la crisi.
Approfondendo il confronto tra Germania e Italia del settore è possibile cogliere il vantaggio della Germania rispetto a tutti gli altri paesi, in particolare dell’Italia. Infatti, in Germania l’automotive sul complesso della produzione manifatturiera pesa per l’11,80%, mentre in Italia vale il 3,60%. Quindi la crisi della Fiat è una crisi industriale di struttura, non di mancati investimenti.
GLI INVESTIMENTI MANCATI. Circa i presunti mancati investimenti della Fiat non c’è da sorprendersi come non c’è da sorprendersi degli investimenti realizzati dalle imprese tedesche del settore. Utilizzando Keynes si può dire: non possiamo chiedere alle imprese in un periodo di crisi di sviluppare dei nuovi investimenti. La Germania ha tutto l’interesse a sviluppare degli investimenti in nuovi modelli e nuovi prodotti. Ogni investimento alza le barriere all’entrata del settore e garantisce un profitto legato alla conquista di nuovi mercati liberati dai concorrenti più deboli. La Fiat se investisse non farebbe altro che produrre perdite. La sua dimensione di scala non gli permette di ammortizzare questi investimenti nella misura delle imprese tedesche. Fin dall’inizio era evidente che Fabbrica Italia era una presa per i fondelli.
Cosa si potrebbe fare? Forse è giunto il momento di coinvolgere la Commissione Europea per guidare il necessario processo di ristrutturazione del settore delle automotive, in particolare quello dell’auto. Se l’Europa non interviene come agente economico, l’unico equilibrio del settore è quello determinato dal dumping fiscale e salariale che si realizza nei paesi. Sostanzialmente la ristrutturazione si realizza non sul principio della corretta allocazione delle risorse (scarse) e dei vantaggi comparati, ma agirebbe solo dal lato dei costi fiscali. Un esito che, paradossalmente, allontana dal mercato tutte le case automobilistiche. Per queste ragioni l’Europa dovrebbe assumere un ruolo guida del necessario processo di ristrutturazione del settore, sulla base delle competenze, delle economie di scala, nonché dell’orizzonte europeo in materia di green economy. In oltre, l’intervento della Commissione permetterebbe di uscire dalle logiche locali, statali e fiscali, consegnando il progetto automotive alla politica industriale europea, evitando di mettere in competizione le diverse società automobilistiche sulla base dei diritti dei lavoratori.
di Andrea Di Stefano e Roberto Romano
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Roma, 21 feb. (Adnkronos) - "Vogliamo essere gli architetti di una nuova democrazia. La grandissima preoccupazione, pensando al tema della geo cultura è che quando la politica si fa guidare dall’economia, diceva Adam Smith, diventa un problema democratico perché l’economia avrà sempre un interesse diverso dalla politica. Se la politica gestisce l’economia stiamo tutti bene. Ho paura del fatto che nelle mani di pochissime di persone c’è il potere economico, praticamente, di tutti, e che non si colga questo pericolo". Lo ha detto Walter Mauriello, presidente nazionale Meritocrazia Italia, oggi a Firenze, chiudendo il focus dedicato alla Geo cultura, in occasione della Direzione nazionale di Meritocrazia Italia, la due giorni interamente dedicata al confronto tra le parti politiche, le Istituzioni tutte e i cittadini.
“Meritocrazia Italia - spiega Mauriello - fa passi in avanti molto improntati in termini di qualità e sostanza, ma il leader deve essere un passo indietro rispetto agli altri, non tanto per umiltà, ma per osservare, vedere le qualità e metterle a servizio del gruppo. La politica che stiamo costruendo è attrattiva, vuole dare la possibilità al debole di parlare e al forte di mettersi in discussione, nel rispetto delle regole che evita manganelli e sanzioni e dà la possibilità di una vita equilibrata e felice. Sull’ambiente, ad esempio la geo cultura è stata distrutta dalla necessità di energia. Certo, non si esclude il nucleare, ma è importante sfruttare tutte le risorse, mentre continuiamo ad andare a prendere" energia in Paesi con petrolio "dove l'egemonia è di pochi. Insieme si può realizzare una grande opera. Questo vale anche per la giustizia”.
“Nel nostro cammino abbiamo incontrato tante persone di qualità - conclude Mauriello - La grande certezza è questo gruppo, di cui pensiamo sempre il prossimo step. Abbiamo da tempo interlocuzione diretta con il presidente della Repubblica, con il presidente del Consiglio” e Oltreoceano. "Abbiamo l’ambizione di essere noi stessi, per essere un vero cambiamento".
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - In collaborazione con TgPoste.it
Nel 2025 focus su pacchi, risparmio postale, assicurazioni e offerta luce e gas. Sono le priorità di Poste Italiane, messe in fila dall’amministratore delegato, Matteo del Fante, intervistato da Tg Poste all’alba dei conti del gruppo, che ha chiusto il 2024 con numeri record e obiettivi futuri in rialzo. Ora, “rimaniamo focalizzati sulla logistica, in particolare sui pacchi” ma “resteranno importanti i prodotti di risparmio: quest’anno ricorre il 150° anniversario del libretto postale e il centenario del buono fruttifero. Stiamo studiando con Cassa Depositi e Prestiti delle emissioni per celebrare le soluzioni di risparmio più apprezzate dagli italiani, per un valore di 340 miliardi”; per quanto riguarda la protezione “sarà un anno molto positivo” e per “la nostra offerta di luce e gas il 2025 sarà storico perché ci siamo dati l’obiettivo di raggiungere il milione di contratti. Al momento Poste Energia conta 700mila clienti, abbiamo ancora lavoro da fare”, ha riferito l’Ad. (Video)
“Questa azienda non produce beni fisici ma offre servizi. Se i nostri colleghi operativi e l’azienda tutta non collaborassero non si raggiungerebbero questi numeri. Quando si ottiene più di quello che ci si aspettava, significa che tutti i colleghi ci hanno messo passione ed è la cosa per noi più importante. Un grazie sulla base di risultati concreti”, ha aggiunto poi Del Fante, riferendosi ai 120mila dipendenti di Poste.
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - “Rispetto al sistema geopolitico non riteniamo che sia assolutamente ragionevole togliere dal patto di stabilità la spesa per le armi. Noi pensiamo a una geopolitica che rimetta al centro l'uomo, rimetta al centro il welfare, rimetta al centro la salute. Questi sono temi che dovrebbero essere tolti dal patto di stabilità”. Lo ha detto Andrea Quartini, deputato M5S, nel suo intervento oggi a Firenze al focus dedicato alla Geo cultura in occasione della Direzione nazionale di Meritocrazia Italia, la due giorni interamente dedicata al confronto tra le parti politiche, le Istituzioni tutte e i cittadini.
“L'Italia è l'incrocio di tantissime culture, di tantissime lingue, di tantissimi soggetti - argomenta Quartini - Questo rende l'Italia un paese assolutamente particolare. Noi siamo stati i migliori diplomatici del mondo, non a caso. Noi siamo un po' spagnoli, un po' greci, un po' africani, un po' arabi. Questa miscela è straordinaria. Ci può far comprendere quanto è importante il dialogo, quanto si può essere efficaci nella capacità di impostare dei negoziati di pace. Credo che questa forza che l'Italia può esprimere può anche riuscire a far ritornare molti giovani ad occuparsi di politica. E credo che questo sia un tema che ci riguarda nel senso anche di avvicinarsi alle strategie di Meritocrazia Italia. Credo che Movimento 5 Stelle e Meritocrazia Italia su questa linea abbiano molte cose da condividere”.
“Credo fermamente nell'idea di un'Europa che riesce a governare una transizione ecologica - aggiunge Quartini - Quindi, da questo punto di vista, credo ci siano degli aspetti che ci assimilano, che ci possono consentire un dialogo forte. Allo stesso tempo, credo che il tema della pace sia un tema assolutamente importante, rilevante. Sono tre anni che, diciamo, che dobbiamo arrivare a un momento di negoziazione e che probabilmente siamo davvero in ritardo e il prezzo pagato da tanti uomini in Ucraina sia un prezzo troppo alto e poteva essere evitato. Allo stesso tempo riteniamo che si debba farlo in un'ottica di credibilità”, conclude.
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - "L'attualità internazionale impone una riflessione. Con determinazione dobbiamo rilanciare quello spirito europeo che l'Italia ha contribuito come Paese fondatore a creare. Dal 1957 i passi in avanti fatti sono stati straordinari, eccezionali, però ora è necessario uno scatto ulteriore. È centrale il tema della difesa, ma in questo ambito le posizioni sono ancora piuttosto articolate all'interno dell'Unione e non è un bene". Lo ha detto Alessandro Battilocchio, deputato Fi, partecipando oggi al focus dedicato alla Geo cultura in occasione della Direzione nazionale di Meritocrazia Italia in corso a Firenze.
"L'Italia fu uno dei Paesi che prima ancora dei trattati di Roma nel 1954 con De Gasperi lanciò l'idea di una difesa comune - continua Battilocchio - Poi, proprio dalla Francia ci fu una grande frenata. Dopo il trattato di Lisbona sembrava che questo percorso si fosse riavviato con una serie di step previsti che dovranno portare ad una difesa comune, però anche in questo caso, pur in una contingenza difficile, legata alla pandemia, i passi in avanti sono stati assolutamente troppo flebili. Ora il tema è tornato prepotentemente d'attualità e io ritengo che sia importante che si sia aperto un dibattito. Le parole che arrivano da Oltreoceano rappresentano, in questo contesto, una spinta ad accelerare questa discussione".
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - “Credo che, sotto il profilo geo culturale un'enfasi forte sul consesso europeo sia strettamente necessario perché ritengo che si stia perdendo culturalmente un ruolo che il nostro contesto geografico politico ha sempre avuto. Con il linguaggio dei numeri, il valore delle nostre imprese in relazione al totale delle imprese del mondo non è sceso, è crollato in modo ingiustificato. Se confrontate il 2005 con il 2024, vi accorgete che il prodotto interno lordo dell'Europa è passato dal 35% del totale del mondo al 20%. Siamo scesi come peso e come significatività. Se poi andiamo a vedere il peso delle società quotate, nel 2005 e oggi, troviamo che è passato dal 35% del totale a meno del 15%”. Così Maurizio Dallocchio, professore ordinario università Bocconi, intervenendo oggi a Firenze al focus dedicato alla Geo cultura in occasione della Direzione nazionale di Meritocrazia Italia, la due giorni interamente dedicata al confronto tra le parti politiche, le Istituzioni e i cittadini.
Nel mondo, “le banche europee, sono irrilevanti - aggiunge Dallocchio - La prima banca europea per dimensione di capitalizzazione è dopo il numero 20. Nelle prime 10 ce ne sono 4 americane, 4 cinesi, una della Gran Bretagna e una giapponese. Non ce n'è una europea. Le banche europee, per finanziare le imprese europee, sono fortissime, sono importantissime - evidenzia il professore - Se consideriamo 100 il debito delle imprese europee, 75 è debito bancario e solo 25% è legato ai mercati e all'emissione di titoli obbligazionari. Credo che se partiamo da questi numeri ci rendiamo contro che stiamo diventando, in qualche modo, preda, sotto il profilo economico. Ma - avverte il professore - l'economia influisce sulla politica e sulla società ed evidentemente dà un impulso numerico alla cultura prevalente”.
C’è una concentrazione geopolitica delle maggiori imprese del mondo. “Tra le prime otto per capitalizzazione di borsa, sette sono statunitensi, l'altra è saudita e fa petrolio - illustra l’esperto - Quella che capitalizza di più in borsa, che vale 3.600 miliardi di dollari, molto di più del debito pubblico italiano per intenderci, quasi il doppio del Pil italiano, è una società che appartiene al settore tecnologico. Le sette americane sono tutte imprese tecnologiche. Per cui il secondo elemento di concentrazione, il settoriale, è potentissimo. Le prime otto società per capitalizzazione di borsa, nel 2005, l'anno di riferimento che ho preso insieme al 2024, erano presenti in sei settori diversi: il farmaceutico, diversificato, la grande distribuzione, il bancario, l'oil and gas e le tecnologie. Oggi i settori presenti sono, praticamente, uno”.
Inoltre, “la capitalizzazione di borsa delle prime cinque società al mondo per capitalizzazione - rimarca il professore - valgono il 30% del mercato di tutto il mondo. La sola, Nvidia, che è legata al mondo dell'intelligenza artificiale, da sola pesa una 1,6 tutta la borsa tedesca: una concentrazione dimensionale incredibile, mai esistita in passato. Altamente preoccupante è che si tratta di realtà proprietarie. Nel 2005, delle grandi imprese che connotavano il mondo, la concentrazione della proprietà era altamente diffusa. Nessuno possedeva più del 7 - 8 - 9%. Oggi, le prime otto società per capitalizzazione, si rifanno al nome di un padrone. Sotto il profilo evidentemente economico, finanziario, ma anche sociale e culturale, ha un impatto sul mondo che è straordinario”.
Come Europa, “se vogliamo tornare ad avere il ruolo sotto il profilo culturale in primo luogo sotto il profilo economico e sociale - suggerisce Dallocchio - è necessario accettare che ci sia un debito comune, è necessario provvedere a una difesa comune, al rilancio dei mercati e della finanza, intesa nel senso buono, dei soldi che finiscono alle aziende proveniendo dalle famiglie. È necessaria una fiscalità omogenea ed è necessario prendere consapevolezza del fatto che se vuoi essere competitivo devi investire in tecnologie e in intelligenza, che poi naturale o artificiale, con una visione di lungo periodo che porti a credibilità, a sostenibilità, a visibilità, a credito, che si trasformi anche in credito culturale della nostra Europa”. In questo contesto, l’Italia “è un Paese che paga una valanga di tasse. Partiamo da un livello di tassazione che, rispetto ad altri Paesi è mostruosamente superiore”. Va bene la rottamazione delle cartelle esattoriali? “Si, ma cum grano salis”, conclude.
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - Le elezioni federali del 23 febbraio 2025 sono un momento cruciale non solo per la Germania ma per l’intero panorama politico europeo e internazionale. Per approfondire l'impatto di questo appuntamento elettorale, Adnkronos organizza una diretta speciale targata Eurofocus, direttamente dalla residenza di Hans-Dieter Lucas, l’ambasciatore tedesco a Roma.
Condotto dal direttore Davide Desario e dai vicedirettori Fabio Insenga e Giorgio Rutelli, con la partecipazione dei giornalisti Adnkronos Mara Montanari e Otto Lanzavecchia, lo speciale di domenica comincerà alle 17 e vedrà la partecipazione di molti ospiti italiani e tedeschi, con continui collegamenti anche da Berlino, Francoforte e Bruxelles.
Alle 18, con la chiusura dei seggi e la diffusione degli exit poll, è prevista l’analisi dei primi risultati. Alle 19 un panel di esperti si confronterà sugli scenari del post-voto: quali le coalizioni possibili, e quali i rapporti di forza tra i partiti. Tra le 20 e le 21, infine, il commento della Elefantenrunde, la “tavola rotonda degli elefanti”, confronto tra i leader politici in onda sulle tv tedesche. Un'occasione unica per leggere i risultati, le prospettive e le possibili conseguenze di queste elezioni sul futuro dell'Unione Europea, delle relazioni transatlantiche e degli equilibri globali.
Lo speciale sarà trasmesso sulla homepage e sul canale Youtube di Adnkronos, con 400 siti collegati tra testate nazionali e network locali online. Le notizie sulle elezioni saranno lanciate in tempo reale dall’agenzia, analisi e interviste pubblicate sulportale Eurofocus.
Roma, 21 feb. (Adnkronos) - "La politica deve essere capace di guidare la narrazione, le trasformazioni, non deve essere esecutrice di decisioni raggiunte in altri ambiti. Meritocrazia Italia chiede un rinascimento della politica, per questo siamo a Firenze. La politica non è solo nei palazzi, parte dal basso e abbiamo ambizioni grandi, anche oltre confine". Lo ha detto Zenaide Crispino, ministro MI Turismo, Cultura, Impresa e Territorio, nel suo intervento al focus dedicato alla Geo cultura in occasione della Direzione nazionale di Meritocrazia Italia in corso a Firenze.
"La geopolitica e la geo cultura si muovono in un gioco di specchi - spiega Crispino - perché si condizionano reciprocamente e il momento storico che viviamo ci pone di fronte a degli scontri asimmetrici. C'è un occidente che si dibatte per mantenere la geocultura, anche al cospetto di un sistema che manifesta delle crepe e delle fragilità. Ci sono Paesi come quelli del Golfo, l'India, la Cina che vogliono riscrivere le regole proprio della geopolitica, si muovono tra capitalismo e autoritarismo, tra egemonia e soft power. Le guerre vogliono riscrivere le frontiere del diritto internazionale. Poi c'è l'Europa, che sembra un po' dispersa tra questi giganti”. A livello internazionale, “sicuramente l'elezione di Trump vede degli Stati Uniti che accelerano sull'indipendenza energetica - illustra - ma che, nello stesso tempo, si svincolano da trattati internazionali che sono stati stilati proprio per una visione coesa internazionale contro il cambiamento climatico. C'è la Cina che, pur essendo uno dei paesi più inquinanti al mondo, ha il monopolio nella produzione delle tecnologie green. C'è l'Europa che insegue, una transizione ecologica giusta, ma tante volte anche ideologica. Ci siamo persi, a volte, perché scollati dalle esigenze delle economie reali".
Ma "l'ambiente non è solo un problema climatico, è anche un problema di sicurezza - sottolinea Crispino - perché dove ci sono delle crisi climatiche si evidenziano anche spesso delle crisi umanitarie e migratorie. Anche in questo caso la politica e la cultura non possono discostarsi l'una dall'altro. Tante volte meritocrazia ha chiesto l'integrazione reale che si basa sull'incontro di quelle culture che vengono in contatto, che restituiscano la tolleranza a chi deve ospitare e la dignità a chi viene ospitato. Questo, a dispetto di un'accoglienza indiscriminata, che invece crea quelle bolle di subcultura che genere illegalità e quindi intolleranza. Anche la giustizia è un elemento essenziale nell'immaginario collettivo. La giustizia deve essere percepita come equa, certa, svincolata dalla burocrazia, deve restituire sicurezza, certezza del diritto, ma anche della pena". Rimarcando l’importanza della politica, Crispino conclude mettendo in guarda sull’affacciarsi di "protagonisti, che sono soggetti privati, che perché dispongono di un potere finanziario tale, hanno la possibilità di gestire asset strategici, la comunicazione, la sicurezza, l'intelligenza artificiale, le energie rinnovabili, fino alla conquista dello spazio. Il mio riferimento non è velato, sto parlando Musk, ovviamente".