A maggio organizzò per lui una raccolta fondi da 1,7 milioni di dollari: soltanto i suoi dipendenti staccarono assegni per 120 mila dollari. Mitt Romney lo sa: la strada verso la Casa Bianca attraversa l’Ohio e, nel secondo più importante degli swing state, passa per la generosità di Murray Energy. Negli ultimi anni la più grande compagnia mineraria privata degli Stati Uniti figura, con i suoi 3.000 lavoratori, tra i più generosi donatori del Partito repubblicano: nel 2011 è stato il secondo maggior contributor nella campagna che ha portato John Boehner a diventare presidente della Camera dei Rappresentanti (il primo fu AT&T, che di dipendenti ne ha 200.000). Ora Robert Murray, 72 anni, padre padrone del colosso del carbon fossile che ha deciso di puntare tutto sullo sfidante di Barack Obama, viene accusato di costringere i suoi dipendenti a mettere mani al portafogli per finanziare il Grand Old Party. Tutti sono chiamati a contribuire, nessuno escluso, dai dirigenti agli operai: “Pena il licenziamento”.
Il 14 agosto alla Century Mine di Beallsville, Romney se ne trovò davanti centinaia. Sorridenti, in tuta blu ancora sporca di terra, il caschetto di sicurezza allacciato sulla testa. “Hey – li apostrofò Mitt dal palco – il vostro capo ha fatto un gran lavoro qui”. Più tardi si venne a sapere che i minatori non solo avevano perso la giornata di paga, ma erano stati costretti ad applaudire il candidato repubblicano “per paura di perdere il posto”, hanno raccontato alcuni di loro a Newsradio1170, radio della West Virginia. Il grande lavoro Robert Murray lo fa da anni: “Siamo sottoposti ad una pressione continua – ha raccontato in forma anonima a The New Republic un manager della compagnia – se non metti mano al portafogli, il tuo lavoro è a rischio”. E le pressioni sono documentate da centinaia di lettere in cui si invitano i dipendenti a staccare assegni e da liste in cui si addita chi dona e chi non lo fa.
“Cosa c’è di sbagliato se chiediamo ai nostri lavoratori di regalarci qualche ora del loro stipendio una volta ogni due mesi?”, scriveva Murray lo scorso marzo. Dal vertice, la pressione si irradia a cascata sui manager di ogni società satellite che compone l’universo Murray Energy, chiamati a far sì che i loro dipendenti contribuiscano alla causa. In una lettera del 26 ottobre 2011 campeggia una tabella che tiene il conto di quanto hanno donato 11 compagnie della galassia Murray, dalla American Coal Company (“225 le contribuzioni sollecitate, 0 quelle arrivate”, si legge) alla Ohio Valley Coal Company (161 contro 3). La liturgia si ripete ogni volta che il politico di turno arriva nello Stato. L’appuntamento è da Undo’s, ristorante italiano a St.Clairsville. Si cena con pasta e insalata, poi ci si mette in fila per donare. “Per favore, fate sì che i vostri dirigenti siano presenti – scrive Murray nel 2011 ai manager prima di una raccolta fondi per Roger Wicker, senatore del Mississippi, e Bob Corker, senatore del Tennessee – per il bene loro e quello dei loro operai”.
Ogni dipendente deve contribuire in base alla paga che percepisce e il rituale è costoso, specie per ingegneri, geometri e contabili: in media 200 dollari ogni volta che Murray chiama. “La gente è turbata – racconta una delle fonti – e le richieste di soldi arrivano di continuo”. E quando i dipendenti non rispondono, partono le pressioni psicologiche. In una lettera del settembre 2010, poco prima delle elezioni di Mid-term, in cui lamenta scarsa partecipazione ai Pac della compagnia, Murray scrive: “La risposta al nostro appello è stata povera. Abbiamo solo poco più di un mese: se non vinciamo, l’industria del carbone verrà eliminata e la stessa fine farà il vostro lavoro”. La strategia della paura.
Sarà per questo che il 14 agosto, mentre Romney scendeva dal palco montato vicino alla miniera a St.Clairsville, stringendo le mani dei suoi operai Murray rispondeva così a chi gli chiedeva un commento sulla grande affluenza: “Sono spaventati, hanno paura di perdere il lavoro. E io ho paura per tutti loro”.