Il suo nome ufficiale è “socialismo del secolo XXI”, ma visto da vicino – spogliato dalla mitologia lungo le cui linee va, ogni giorno, riscrivendo la propria storia – assomiglia tremendamente al caudillismo del secolo XIX.
O, più specificamente, ad alcuni dei regimi “ibridi” – mezze dittature e mezze democrazie – che, nel secolo XX, hanno marcato la storia dell’America Latina. Come nel Messico dominato dal PRI, il Venezuela di oggi è sotto il controllo d’una sola forza politica, identificata con lo Stato.
E come nell’Argentina della “gran decada” peronista lo Stato è, essenzialmente, soltanto il contorno, l’ornamento, d’una figura – quella del “Conductor” Juan Domingo Perón – oggetto d’un quasi religioso culto che, indubbiamente – a dispetto, o forse in virtù, dei suoi grotteschi e talora macabri risvolti -riflette sentimenti d’un genuino amore popolare.
Come nel Messico del PRI (e come nell’Argentina di Perón) in Venezuela si vota regolarmente. Come nell’Argentina di Perón (e come nel Messico del PRI), in Venezuela esistono partiti d’opposizione e una stampa che, seppur costretta a muoversi sotto i tempestosi cieli di svariate “leggi-bavaglio”, è ancora relativamente libera.
Oggi, domenica 7 ottobre, questo curioso incrocio tra passato e futuro, affronta una nuova prova del voto. E due cose è, a questo punto, lecito credere. La prima: che Hugo Chávez, gran caudillo ed erede autentico del “Libertador” Simón Bolivar, vincerà di nuovo, seppur non con i pantagruelici margini che lui stesso aveva preconizzato. La seconda: che questa sarà, quasi certamente, la sua ultima vittoria.
Non solo, e non tanto, perché la salute di Chávez – colpito un anno fa da un cancro e già operato due volte – continua ad essere un segreto di Stato. Quanto, soprattutto, perché lo Stato di cui Chávez guarda ogni segreto e di cui a suo piacimento controlla ogni risorsa, comincia a mostrare le crepe d’una intrinseca contraddizione.
Arrivando alla presidenza nel 1998, Hugo Chávez ha avuto l’indiscusso merito di porre – a fronte della crisi mortale del vecchio bipartitismo “puntofijista” – due fondamentali problemi: l’allargamento delle basi sociali d’una democrazia elitaria ed inamidata, e la redistribuzione verso il basso della rendita petrolifera. In 14 anni di governo, il chavismo ha, per molti aspetti, conseguito l’una e l’altra cosa, ma in termini che rammentano molto più il “medioevo” del tradizionale caudillismo ispano che una nuova frontiera della democrazia.
Chávez è, non v’è dubbio, ancora molto popolare. E certo è che – per quanto clownesco e, assai spesso, segnato da una volgarità da caserma – il culto della sua personalità ha trovato una forte eco tra i ceti più poveri. Ancor più certo, inoltre, è che i poveri stanno oggi, grazie al chavismo, meglio di quanto stessero 14 anni or sono. Ma la qualità di questo miglioramento è quantomeno opinabile, ed il suo prezzo politico, altissimo. Sotto Chávez è di fatto scomparsa ogni forma di divisione dei poteri. E, insieme alla divisione dei poteri, ogni forma di controllo democratico (o anche solo amministrativo). Un dato, soprattutto, va ricordato. Quando, nel pieno d’una devastante crisi, Chávez prese il potere, il prezzo del petrolio oscillava tra gli 8 e i 10 dollari al barile. A partire degli ultimi mesi del 2003 fino ad oggi (con la parentesi degli anni 2008 e 2009), quei prezzi hanno conosciuto un boom senza pari nella storia, avvicinandosi, nei momenti di maggior auge, ai 150 dollari. Nessuno, prima di Chávez aveva goduto di tanta abbondanza. E nessuno ha come lui potuto usarla con una altrettanto incontrastata arbitrarietà.
Tra il 2002 ed il 2003 – dopo un lungo confronto politico-sindacale passato alla storia come “el paro petrolero” – Chávez ha assunto il pieno controllo di PDVSA, l’ente petrolifero statale, e l’ha trasformato in una gigantesca macchina all’esclusivo servizio d’un potere – il suo – basato, per l’appunto, sul culto della personalità del gran capo. Prima di Chávez, PDVSA era un’impresa efficientissima ma avara, che consumava al proprio interno tutte le proprie risorse. Era un’azienda pubblica, ma era come se non lo fosse. Oggi, le sue risorse – esponenzialmente moltiplicate dal boom petrolifero – sono un fiume in perenne uscita ed in perenne piena. Un fiume che scorre, nella grande maggioranza dei casi, “fuori bilancio” verso un fondo, o meglio, verso un gigantesco buco nero chiamato FONDEN.
Molti di questi fondi arrivano oggi dove prima mai sarebbero arrivati. Ma ci arrivano per vie che solo a Chávez sono conosciute. Senza controlli, né resoconti, come ingranaggi d’un colossale apparato assistenziale – clientelare e corrotto, indebitato ed inefficiente – di potere personale. I poveri ricevono. Ma ricevono, quasi sempre, in cambio della fedeltà politica.
Contro il Golia di questa gigantesca macchina da centinaia di miliardi (l’intero Stato venezuelano, in effetti) ha dovuto, come Davide, battersi Henrique Capriles Radonski. E l’ha fatto, occorre dirlo, con grande bravura, alla testa d’una coalizione che è ancora ben lungi dall’essere un vero partito politico. Se, com’è probabile, domani non vincerà, non potrà rimproverare nulla a se stesso. E del suo sforzo resterà comunque una frase che è andato ripetendo in molti comizi. “Nel mio Venezuela, nessuno sarà mai costretto ad indossare la camicia rossa per avere una casa”.
Probabilmente non domani. Ma presto o tardi (più presto che tardi) questo elementare principio di giustizia e di decenza – più forte di Chávez e del petrolio – finirà per prevalere anche in Venezuela. Il caudillo Chávez è al suo ultimo hurrà.