Paul Valéry ebbe a dire, sul fare e sul leggere poesie, alcune cose bellissime: ho un libro che raccoglie i suoi scritti sull’arte (così si intitola: “Scritti sull’arte”, per i tipi degli Editori Associati) ed è illuminante. Sua è per me la miglior definizione di poesia possibile: la poesia è una lunga esitazione fra il suono e il significato. Poi disse questo: “Dovete ora distinguere fra i versi. Immedesimatevi un po’ nell’autore. Guardate i suoi oggetti, le sue difficoltà, il suo facile e il suo difficile. Troverete presto che bisogna distinguere fra i versi. Alcuni servono alla composizione stessa, di cui sono membri indispensabili; annunciano, provocano, risolvono gli avvenimenti; rispondono a questioni logiche; permettono di riassumere il dramma e sono, in qualche modo, sullo stesso piano della prosa. E’ grande arte pronunciare questi versi necessari; ma l’arte di farli è più grande. Ma altri versi, che sono tutta la poesia dell’opera, cantano, e racchiudono quella parte del poeta che più somiglia alla sua profonda natura. Non ho bisogno di raccomandarvi queste parti divine”.
Trovo queste frasi estremamente affascinanti, di quelle che penso possano provenire unicamente dagli artisti, che esperiscono in una vita il processo creativo. Quei pochi versi che più si identificano con la profonda natura del poeta esistono, e sono quelli che più decisamente coincidono con la parte “trasfigurata” dell’ispirazione. Per chi ha il mito della semplicità (“Mi piace quel romanzo, perché è scritto in modo semplice…”) potrebbero sembrare quelli che più a essa si avvicinano, facendola coincidere con la spontaneità. Ma per me l’arte non è semplice. E soprattutto non è spontanea. Faccio due esempi estremi per provare a darne dimostrazione: se valgono per loro ritengo che relativizzando possano valere per ogni lavoro realmente artistico. Come si può pensare che Dante abbia scritto la Divina Commedia in modo semplice e spontaneo? Oppure: come si può pensare che un film, qualsiasi film, sia fatto in modo semplice? Da quando un film viene pensato a quando viene proiettato passano mesi di lavori, decine e decine di ore di tramestii delle maestranze, varie sessioni di riprese fra cui scegliere, altrettante di montaggio, eccetera. D’altronde basta avere la buona abitudine di lasciar scorrere i titoli di coda e vedere quanta gente partecipa alla creazione di un film. Tutto il contrario della spontaneità. (Desidero però precisare: la semplicità come esito di un lavoro a monte inevitabilmente complesso ritengo sia ammirevole e per certi versi invidiabile.)
Ma in realtà quello che dice Valéry è riferito a quei versi che, quasi come per magia (non a caso viene da lui usato l’aggettivo “divine”), non hanno bisogno di pensamenti particolari e artifici, giungendo al poeta direttamente per il tramite del momento ispirato, perfetti nel loro equilibrio fra suono e significato (se ci pensate bene tutti noi abbiamo dei momenti ispirati nella nostra vita: qualsiasi cosa vi tocchi, nel momento in cui la vivete, dal tramonto struggente a un uccellino grazioso chiuso in gabbia eccetera, riempie il vostro animo di un sentimento potenzialmente poetico. Chi poi ha il dono della scrittura e, come diceva Borges, sa meritare l’ispirazione sopraggiunta, lavorerà sodo per tradurre in poesia scritta quanto vissuto). Chiaramente, se si lascerà soli quei versi la poesia non si concluderà, e rimarrà un concentrato incoerente di poche bellissime parole un po’ sospese; serviranno allora gli interventi della parte ragionata, quella in cui l’intelletto procederà con gli artifici a costruire i versi di raccordo perdendo suo malgrado l’efficacia della magia estemporanea (“il cemento della prosa versificata” diceva Montale, il quale diceva anche che tutto il fare poetico è “una strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia”).
Ora: dando per scontato che per qualcuno quanto appena scritto risulterà spocchioso (stando a certe cattive reazioni al mio post precedente sembra cosa indubitabile), metto le mani avanti prima di chiudere questo con ciò che mi preme dire, poiché mi permetto una analogia: io, autore di testi per canzone e non poeta, utilizzo gli stessi strumenti del poeta, ovvero creo per versi. Dunque ho esperienza di quelli coincidenti con la parte più vera di me. Sono i casi in cui si adottano le due parole “particolarmente ispirato”. Ecco, la nostra Musa, canzone della passione amorosa pervasiva e onnicomprensiva, scritta sulle vette del sentimento pienamente vissuto e sua celebrazione, è una canzone particolarmente ispirata, in cui i versi che più somigliano alla mia profonda natura sono numerosi.
Al pianoforte c’è il maestro Paolo Conte, che ci regalò in amicizia e stima le sue preziosità. Quel giorno piccoli brividi di orgogliosa soddisfazione si sparpagliarono in noi Marlene, felici come bimbi.
Ps1: Non credo che molti fra coloro che hanno riversato irritazioni e irriverenze nel mio ultimo post (intitolato come la nostra canzone: 111) siano giunti sin qua ora: troppo poco scabroso l’argomento di oggi. Ma magari mi sbaglio. E allora voglio precisare alcune cose in merito alle documentazioni che mi hanno fatto scrivere quel che ho scritto e che tanto ha infastidito. Ovviamente non sono un esperto di antropologia, né di etologia, né di storia culturale, ma dalle argomentazioni inesistenti che mi sono state rigirate non ve n’erano neanche fra i loro artefici. Per cui vale il fatto che io abbia dato credito a un neuroscienziato (Daniel J.Levitin) e a un filosofo-psicologo (Jonathan Haidt), che nei loro rispettivi libri, da me letti, hanno detto ciò che io ho riportato tale e quale nel significato a riguardo di passione e dopamina, animali, differenziazione fra noi e loro relativamente alla diversa impostazione famigliare e alla crescita dei procreati, sviluppo del cranio umano, amore complice, eccetera.
Ps2: un aneddoto che potrà far sorridere i dotati di spirito. Sto leggendo il memoir di Salman Rushdie uscito in questi giorni (titolo: Joseph Anton, Ed. Mondadori), che fino a ora si rivela essere bellissimo, nella sua rimarchevole, precisa onestà e non solo. A un certo punto mi imbatto in queste parole: “Si ricordava ancora di quando alla radio della BBC aveva ascoltato le Reith Lectures di Edmund Leach, il grande antropologo e commentatore di Claude Levis-Strauss, che un anno prima aveva sostituito Noel Annan alla presidenza del King’s College. Disse che, lontana dall’essere una società giusta la famiglia, con la sua angusta privacy e i suoi sordidi segreti, è la fonte di ogni nostra insoddisfazione”. La cosa di cui sorridere non risiede nel fatto che un antropologo di fama, ovvero uno di quegli studiosi che mi è stato consigliato di STUDIARE (già, mi è stato scritto in maiuscolo, per via dei miei “pastrocchi surreali e pseudoscientifici da intellettualoide pieno di sè”), asserisca in buona sostanza l’esatto contrario di quello che ai dispensatori di consigli-in-maiuscolo piacerebbe sentirsi dire, ma il fatto che queste parole nel libro di Rushdie siano a pagina 111… :)
“Mi strega e mi rapisce la tua giovane
saggezza incomparabile, che ossequio,
e l’eleganza di ogni tua intenzione
è incantevole.
E quando ti congiungi a me sai essere
deliziosamente spinta e indocile,
coltivando le tue bramosie
sulle mie avidità”