Alcuni bambini nascono senza un orecchio, altri con quattro dita alle mani, altri ancora con delle malformazioni al palato. Una percentuale superiore di sei volte rispetto alla media nazionale. Succede a Gela, novantamila abitanti sulla costa meridionale della Sicilia; lì venire al mondo è più difficile che nel resto d’Italia. Una maledizione infernale che danna le famiglie del luogo dagli anni ‘70. Solo nel 2002 sono ben 512 i bambini nati malformati. E adesso, dopo anni di disagio, la procura di Gela ha aperto un’indagine sul caso. Oggetto dell’inchiesta una sola, importante, domanda: perché qui i casi di malformazione sono più comuni che nel resto d’Italia? La risposta allunga inevitabilmente lo sguardo sulla costa della cittadina in provincia di Caltanissetta, e precisamente dalle parti del petrolchimico dell’Eni, voluto alla fine degli anni ’50 da Enrico Mattei in persona. Per anni a Gela la parola lavoro ha fatto rima con l’azienda del cane a sei zampe. Erano decine di migliaia gli operai che ogni mattina varcavano i cancelli del petrolchimico per portare a casa pane e lavoro. Oggi sono meno di duemila. Centinaia invece le famiglie che negli anni hanno temuto per la sorte dei loro figli.
Diffusissima è l’ipospadia, una malformazione congenita all’apparato genitale, ma comuni sono anche i casi di bambini nati microcefali. Quasi una routine i casi di malformazioni genetiche tra le famiglie di operai ed ex dipendenti del petrolchimico dell’Eni. “Quando io e mio fratello gemello siamo nati senza alcun tipo di malformazione, in famiglia si è quasi gridato al miracolo per una cosa che in realtà dovrebbe essere normale” racconta Andrea Turco, ventenne figlio di un operaio dell’indotto petrolchimico. Già nei mesi scorsi le telecamere del fattoquotidiano.it erano arrivate a Gela per documentare la storia degli ex operai di Clorosoda, il reparto killer dell’Eni, e raccontare l’allarmante diffusione di malformazioni genetiche che si verificano ancora oggi, nonostante ampie porzioni del petrolchimico dovrebbero essere state bonificate. Adesso la procura guidata dalla dottoressa Lucia Iotti, che già aveva aperto un fascicolo su Clorosoda, ha deciso di indagare anche sull’alto tasso di malformazioni congenite, ricostruendo a livello storico la vicenda, e provando ad individuare i possibili responsabili.
“Il problema è che a Gela è inquinato tutto: dall’acqua, agli ortaggi, al cibo con cui viene allevato il bestiame” aveva spiegato il genetista Sebastiano Bianca, perito della procura di Gela, ai microfoni del fattoquotidiano.it. L’alto tasso di malformazioni genetiche è dovuto ai distruttori endocrini, elementi derivati dalle sostanze inquinanti simili a quelle emesse dal petrolchimico: dal potenziale micidiale sono in grado di attaccare il tessuto provocando le malformazioni neonatali. Il problema per la procura è trovare il nesso causale, ovvero provare a livello scientifico, e quindi giudiziario, che i tumori e le malformazioni genetiche derivano dall’inquinamento prodotto dal petrolchimico. Nel 2006 a Priolo, pochi chilometri a nord di Gela, si era verificata una situazione simile. In quel caso, però, la Syndial, società dell’indotto Eni, aveva deciso di risarcire alcune famiglie danneggiate mentre le indagini erano ancora aperte: 101 casi di bambini nati con malformazioni genetiche erano costate più di undici milioni di euro, ma la vertenza era stata chiusa. Oggi Andrea Armaro, responsabile delle relazioni esterne dell’Eni in Sicilia, si esprime anche sul caso di Gela. “Se dovessero essere dimostrate responsabilità dell’Eni a Gela siamo pronti ad aiutare anche quelle vittime”.
Il dottor Bianca però lancia l’allarme: “Non è una condizione che si può restringere ad alcuni casi, ma al contrario è una situazione che riguarda anche altro. Riguarda il futuro. Il problema principale è che qui a Gela in trent’anni non è cambiato nulla: pur avendo dismesso gran parte degli impianti del petrolchimico le percentuali di malformazioni sono rimaste stabili. Quindi il vero problema di questa città non sono le generazioni presenti ma quelle che future. Non sappiamo per quanto le condizioni rimarranno allarmanti. Il padre guarda il figlio che nasce e non può preoccuparsi soltanto per lui, ma anche per il nipote”. Una catena generazionale che negli ultimi anni sembra essere stata senza fine.