Una vittoria netta. Un Paese diviso. E’ il verdetto che esce da una tra le più drammatiche e combattute elezioni della storia recente degli Stati Uniti. Barack Obama è stato rieletto (guarda la cronaca con tutti i dati). Il presidente è riuscito a conquistare quasi tutti gli Stati più contesi alla vigilia – tranne il North Carolina. Ma il voto popolare mostra un’America divisa esattamente in due. Se il Senato resta sotto il controllo dei democratici, la Camera vede un rafforzamento della maggioranza dei repubblicani. I prossimi mesi, presumibilmente, presenteranno lo stesso panorama di divisioni e lotte che ha segnato questa campagna.
Un primo dato importante da segnalare riguarda la mappa politica. La vittoria di Obama è arrivata quando ancora Ohio, Florida, Virginia non erano stati assegnati. Sono stati cioè sufficienti i numeri che arrivavano da Pennsylvania, New Hampshire, Iowa, Nevada, Colorado, per dichiarare chiusa la partita. Si è trattato di un dato che ha contraddetto gran parte delle attese – per settimane si era detto che l’Ohio sarebbe stato decisivo – e che ha dimostrato soprattutto una cosa: che gli elettori degli Stati del Midwest e del West – molti di questi colpiti da una durissima crisi economica e dalla perdita occupazionale – appoggiano l’idea di Obama sul ruolo del governo come motore dell’economia e creatore di posti di lavoro.
L’elemento forse più potente di queste elezioni, e che ne spiega l’esito, è però probabilmente quello relativo alle forze che hanno riportato Obama alla Casa Bianca. La coalizione di gruppi e interessi che aveva fatto trionfare il presidente democratico quattro anni fa è ancora presente. Donne, giovani, afro-americani, ispanici sono tornati a votare con la stessa partecipazione ed energia di quattro anni fa. La coalizione ha perso, probabilmente, alcuni frammenti. Possibile che settori dell’elettorato bianco, della media borghesia e della working-class più colpite dalla crisi, abbiano preferito quest’anno votare repubblicano. Ma quella coalizione continua a esistere e rappresenta ormai una forza centrale della politica americana.
Si tratta di un’aggregazione socio-culturale e demografica che ha un’idea di America più aperta, tollerante, inclusiva. Non è un caso che praticamente tutti i referendum più importanti votati ieri abbiano visto la vittoria delle cause progressiste. Gli elettori di Maryland e del Maine hanno votato a favore dei matrimoni gay. Sempre in Maryland ha vinto chi pensa che gli immigrati, anche se illegali, possano e debbano poter accedere ai college dello stato. E in Colorado e Washington sarà possibile detenere “per uso ricreativo” la marijuana. Si tratta di “segnali”, di episodi significativi che trovano conferma anche nella vittoria di tutti quei candidati democratici, al Senato, la cui battaglia aveva assunto importanza nazionale. Vincono Elizabeth Warren in Massachusetts, Claire McCaskill in Missouri, Joe Donnelly in Indiana, Chris Murphy in Connecticut, Tim Kaine in Virginia. Tammy Baldwin del Wisconsin sarà la prima senatrice apertamente lesbica della storia d’America. Politici repubblicani come Todd Akin e Richard Mourdock, che avevano parlato di “stupro legittimo” e di “stupro come dono di Dio”, hanno avuto la carriera stroncata.
L’elezione 2012 rappresenta del resto un punto di non ritorno per i repubblicani. Il partito degli anziani e dei bianchi, i due gruppi in cui il GOP ottiene più consensi, non è quello che può gareggiare e avere qualche possibilità di vittoria nel Duemila. “L’establishment bianco è ora minoranza”, ha detto polemicamente Bill O’Reilly di Fox News. E secondo Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida, “il movimento conservatore deve ritrovare la sua capacità di attrazione per immigrati e minoranze”. La cosa riguarda soprattutto gli ispanici. George W. Bush conquistò nel 2004 il 44% del voto ispanico. John McCain il 31%. Romney, che ha riconosciuto la vittoria, è precipitato al 27%. Se i repubblicani non vogliono perdere per generazioni l’appoggio dei settori più vitali della società, devono cambiare rapidamente corso.
Rimane il tema del lavoro da fare nei prossimi mesi. Nel discorso della vittoria al McCormick Center, Obama ha fatto risuonare con particolare urgenza l’appello all’”unità d’America”, al superamento delle divisioni, al dialogo tra diversi. “Non esistono Stati blu e Stati rossi, Stati democratici e Stati repubblicani. Esistono gli Stati Uniti d’America”, ha detto, rieccheggiando un tema già usato durante la campagna di quattro anni fa. Obama ha offerto al Congresso, quindi ai repubblicani della Camera, un programma di lavoro comune nei prossimi mesi: riduzione del deficit, un nuovo sistema di tassazione, un’organica riforma dell’immigrazione. Il no è praticamente certo ed è stato annunciato nelle scorse ore dallo speaker repubblicano della Camera, John Boehner. Probabile quindi che i prossimi mesi riproporranno lo scenario di aspre divisioni già sperimentato durante la campagna elettorale. Ma questo appartiene appunto al futuro. Per ora, per le strade di Chicago, c’è soprattutto la voglia di festeggiare il ritorno – atteso, faticoso, difficile – di Barack Obama alla Casa Bianca.