Primo mese di lavoro in Guatemala. Contrariamente a quanto ritengono i soliti benpensanti che pensano sempre male delle persone perbene, qui si lavora e si lavora duro su casi difficili. E le difficoltà, anche qui, non sorgono tanto nelle indagini sul narcotraffico. Quelle, almeno a parole, le vogliono tutti. E tutti chiedono massima severità contro i narcos. Tolleranza zero. Un po’ come in Italia nei confronti dei soliti noti, i Riina e i Provenzano. I macellai, sporchi e cattivi, contro i quali indirizzare la sacrosanta richiesta di giustizia degli italiani indignati per lo strapotere di mafie che ancora oggi spadroneggiano nei territori, nell’economia e nella politica. L’importante è che i soliti ignoti stiano al sicuro. Impuniti. È proprio per combattere l’impunità dilagante che qui è nata la CICIG, l’organismo dell’Onu dove ricopro l’incarico di capo delle investigazioni.
Vi descrivo un caso per darvene un’idea: il massacro del carcere Pavon. Un penitenziario diventato un mondo a parte, da anni totalmente sfuggito al controllo delle autorità statali, tanto che per almeno un decennio è stato autogestito da un comitato interno “di ordine e disciplina” composto da soli detenuti. Ebbene, il 25 settembre 2006 lo Stato decide di riprendere il controllo del carcere con un’operazione in grande stile, con l’impiego di 2 mila uomini, poliziotti e soldati, agli ordini diretti del ministro dell’Interno e di tutti i vertici di polizia, servizi di sicurezza e amministrazione penitenziaria, che partecipano in prima persona e in divisa militare. Alla fine, rimangono uccisi sette detenuti che, secondo la versione ufficiale, avevano opposto resistenza armata. Le indagini, condotte negli anni passati dalla CICIG, hanno invece consentito di accertare che il conflitto a fuoco era stato una messinscena per coprire delle autentiche esecuzioni a freddo di alcuni detenuti elencati in una lista distribuita ai militari operanti. Un agghiacciante regolamento di conti usando le strutture statali.
Tutti i responsabili del massacro, compresi i vertici politici e militari, sono stati incriminati, ma molti sono riusciti a fuggire, riparando in vari Paesi in Europa dove sono ancora in attesa di giudizio (l’ex ministro dell’Interno libero in Spagna, e gli altri arrestati, uno in Austria e un altro in Svizzera), mentre l’unico rimasto in questo Paese, il capo dell’amministrazione penitenziaria, con un’incredibile decisione è stato recentemente scarcerato. E fra inauditi e cavillosi ricorsi alla Corte costituzionale, stiamo tentando di aprire un processo su questi fatti orribili in modo che non ne rispondano solo i militari di più basso grado che hanno eseguito gli ordini superiori. Riuscirà la giustizia guatemalteca, così fragile, dietro l’impulso delle Nazioni Unite rappresentate dal mio ufficio, a intaccare l’impunità dei signori della violenza? Riuscirà la comunità internazionale a far rispettare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge qui e ovunque? Questa è la sfida che abbiamo davanti in Guatemala, ma anche in Italia. Una sfida nella quale deve sentirsi impegnato ogni magistrato e ogni cittadino. Perché la giustizia sia eguale. Un impegno in linea di continuità fra quello che ho fatto in Italia e faccio qui.
Ora leggo sui giornali italiani di mie presunte e annunciate candidature politiche. Analoghe cose ho letto in questi ultimi anni, quando mi si attribuivano infondate aspirazioni a diventare, prima, il sindaco di Palermo, poi il presidente della Regione Sicilia, ora (addirittura!) il premier. Su questo voglio essere chiaro. Non mi interessa essere candidato, non mi interessa un seggio in Parlamento. Mi interessano i contenuti di certe battaglie, a partire da quella contro ogni forma di impunità in ogni parte del mondo e per l’affermazione del principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge. È quello che ho cercato di fare per 20 anni in Italia come pm antimafia, non evitando le indagini più scomode, e partecipando al dibattito pubblico su questi temi. È quello che sto facendo ora, in una situazione ancora più estrema e che vorrei continuare a fare qui oggi, e altrove in futuro. Il resto sono ricostruzioni giornalistiche, a volte un po’ di colore, in questo caso “arancione”…
Ma sul punto vorrei essere molto chiaro: io non sono mai stato una “toga rossa”, come non diventerò una “toga arancione”, ma sempre toga autonoma e indipendente, che crede nella giustizia e nell’eguaglianza. Con questo stesso spirito di servizio non mi tirerò mai indietro al momento di sostenere in qualsiasi forma quegli italiani che credono negli stessi valori, e che detestano l’impunità dei potenti di ogni latitudine. Che reclamano i propri diritti e un’Italia, ma anche un mondo, più giusti ed eguali. Scusate l’enfasi, ma quando si affrontano vicende così drammatiche come quelle che vedo qui e dopo aver vissuto gli anni tragici dello stragismo mafioso, l’emozione per certi valori sale…
di Antonio Ingroia