Ancora segnata dal ricordo dalla bancarotta che la colpì nel 2008, l’Islanda torna a fare i conti con il più tremendo fantasma del passato: la bolla immobiliare. L’ultima minaccia, in ordine di tempo, arriva da Housing Finance Fund (HFF), il principale emittente di mutui del Paese. La banca, che fa i conti con un tasso di default pari al 9,6% sui prestiti concessi nel settore immobiliare, viaggia verso il collasso con il serio rischio di trascinare sul fondo tutti gli investitori che negli ultimi anni l’hanno finanziata acquistando le sue obbligazioni. Lo scorso 5 ottobre, ha riferito Bloomberg, i bond di HFF sono stati classificati ad alto rischio dall’agenzia di rating Moody’s che ha attribuito loro una valutazione di Baa3: appena un gradino al di sopra del livello junk, quello dei titoli spazzatura. Per questo il governo islandese si sta preparando a iniettare al circa 13 miliardi di corone (oltre 100 milioni di dollari) nell’istituto scongiurandone così il fallimento.
I guai di HFF sono attualmente legati alla crescita dell’inflazione, che viaggia al 4,5% (contro un livello obiettivo del 2,5%). I mutui emessi dalla banca sono indicizzati proprio all’aumento dei prezzi, cosa che, allo stato attuale, li rende assai meno convenienti rispetto a quelli proposti dalle altre banche. Proprio per questo l’istituto sta perdendo progressivamente quote di mercato con il rischio di ritrovarsi a breve in una situazione insostenibile. La vicenda chiama in causa l’ultima beffa di un processo di ripresa caratterizzato da significative crepe. Un piano di rilancio basato su soluzioni spesso obbligate, ma non privo di conseguenze inevitabili e potenzialmente distruttive. Una sorta di maledizione capace di trasformare il peccato originario del Paese, la bolla immobiliare, in un fenomeno ormai endemico. Insomma, è certo che il Paese non fallirà una seconda volta. Ma con la bolla e i suoi fantasmi dovrà convivere ancora a lungo.
Il default del 2008 aveva scoperchiato il sostanziale inganno che si celava dietro al boom economico nazionale. L’anno precedente, il Pil pro capite del Paese si era attestato a quota 40.600 dollari, per intenderci era come se l’islandese medio fosse diventato di colpo più ricco del suo omologo svedese o svizzero. Ma la mostruosa crescita economica era drogata di debito, quello stesso debito che le tre principali banche del Paese – Landsbanki, Glitnir e Kaupthing – avevano accumulato sui mercati internazionali. La conclusione appariva già all’epoca sostanzialmente inevitabile: gli osservatori iniziarono quindi a sospettare il peggio e gli speculatori seguirono a ruota con le loro scommesse al ribasso. Icesave, la filiale UK di Landsbanki, fallì l’8 ottobre del 2008. Qualche giorno dopo toccò a Glitnir, travolta da 210 emissioni obbligazionarie da 23,4 miliardi. Infine, fu la volta di Kaupthing, incapace, alla fine dello stesso mese, di trovare i 4,8 milioni di dollari necessari per pagare la rata dei bond ai creditori giapponesi. Travolto da un mix di inflazione e recessione, il Paese scoprì il suo fallimento. E di fronte all’impossibilità di farsi carico di un debito privato da 85 miliardi di dollari, vale a dire troppo grande per essere scaricato sulle spalle dei contribuenti, il governo abbandonò i creditori delle banche al loro destino. Fine della storia? Nemmeno per sogno.
Il problema è che in quel disastro epico che svelava la prima clamorosa bolla immobiliare europea e le sue devastanti conseguenze, il governo si trovava ad affrontare un’altra emergenza collaterale: la svalutazione della moneta. Alla fine del 2008, nel solo mese di ottobre, la corona islandese si era deprezzata del 58% sui mercati internazionali. Di fronte all’emergenza inflazione/fuga dei capitali il governo avrebbe quindi imposto il blocco dei depositi stranieri denominati in corone, imponendone il reinvestimento entro i confini del Paese. È stato così che gli investitori stranieri hanno finito per iniettare negli ultimi anni la propria liquidità offshore nel settore più ampio, svalutato e quindi promettente del Paese: il comparto immobiliare e i suoi relativi prodotti bancari, un magma finanziario da 8 miliardi di dollari.
Il cerchio, insomma, si è chiuso nel modo più beffardo. Mentre grazie alla svalutazione della corona l’economia si riprendeva sfruttando la competitività dell’export, un nuovo rilancio degli investimenti interessava il settore degli immobili. Dall’aprile 2010 al novembre di quest’anno, ha riferito Bloomberg, i prezzi delle case sono saliti del 17%, appena 1,7 punti percentuali in meno rispetto al picco del marzo 2008. Quello che precedette lo scoppio della bolla.