C’è un convitato di pietra nella partita che si sta giocando nel centrodestra: il patrimonio della ex Alleanza nazionale. Quei 65 milioni di euro in contanti provenienti dai rimborsi elettorali depositati sui conti di An più le decine di immobili provenienti dai lasciti dei militanti del vecchio Msi (valutati intorno ai 35 milioni molto prudenzialmente da una perizia) potrebbero rappresentare una potenza di fuoco formidabile per qualsiasi progetto futuro degli ex camerati. Il presidente della Fondazione che gestisce gran parte del tesoretto, il senatore Franco Mugnai, vicino a Matteoli, ha svolto finora un ruolo di garanzia. Ma Matteoli è molto vicino a Berlusconi e, se dovesse nascere davvero la Nuova Forza Italia vagheggiata dal Cavaliere, Matteoli e Mugnai potrebbero seguirlo. Le chiavi del tesoro di An resterebbero, per la seconda volta, nelle mani della componente di An più cara al Cavaliere. “Matteoli – ribatte Mugnai – ha affermato di voler fare tutto il possibile perché il Pdl resti come lo conosciamo ora. E la Fondazione – prosegue Mugnai – è un soggetto metapolitico che non risentirà delle scelte dei suoi componenti. Gran parte delle decisioni sono state prese finora con l’accordo di tutti”.

Sulla destinazione delle somme in realtà l’accordo non c’è. I finiani in libera uscita come Adolfo Urso, Andrea Ronchi e Antonio Buonfiglio ritengono addirittura che il patrimonio debba tornare al partito e sostengono persino la nullità delle deliberazioni assunte nel marzo del 2009 per sciogliere An e far confluire i suoi beni nella Fondazione An. L’avvocato-onorevole, Antonio Buonfiglio è in prima linea in questa battaglia. L’ex sottosegretario all’Agricoltura, a capo di un gruppo di sei ex finiani, ha presentato un ricorso contro la gestione dei beni di An, ottenendo a febbraio la nomina dei liquidatori Giuseppe Tepedino e Marco Lacchini da parte del presidente del Tribunale di Roma. I liquidatori hanno bloccato i trasferimenti alla Fondazione ma ormai i buoi erano fuggiti e l’unica cosa che hanno ottenuto è stata una transazione per obbligare la fondazione a pagare i debiti del partito. Poi i due liquidatori sono stati rimossi il 26 ottobre scorso dal nuovo presidente Mario Bresciano che ha nominato Andrea D’Ovidio e Davide Franco, sostenendo la tesi della legittimità della Fondazione e segnando un punto per i colonnelli di An contro Fini e compagni.

Nella contesa davanti ai giudici tra i liquidatori e la Fondazione di An (dove La Russa e soci sono in maggioranza) ieri quest’ultima ha segnato un secondo punto: “Non si pone alcun problema”, scrive nell’ordinanza depositata due giorni fa il giudice Guido Romano, “circa la possibilità della Fondazione di An a vedersi – come è effettivamente avvenuto – destinataria dei beni già facenti capo all’Associazione”. E’ solo una decisione cautelare, ma legittima una situazione un po’ grottesca: la Fondazione, gestita dai colonnelli Gasparri, Matteoli, Alemanno e La Russa, con gli uomini di Gianfranco Fini in minoranza, si è attribuita cassa e immobili lasciando alla scatola vuota del partito, gestita dal Tribunale, i dipendenti e i debiti. Il partito è diventato una bad company ingombrante mentre i soldi e gli immobili sono rimasti nella Fondazione presieduta da Mugnai.

Ai politici di An, il patrimonio ideale del partito interessa meno di quello reale della fondazione. Tra i 17 dipendenti abbandonati c’è anche Ione Abbatangelo, figlia dell’ex parlamentare Massimo, già processato e assolto in appello per la strage di Natale del treno 904, realizzata dalla mafia nel 1984, ma condannato per detenzione di esplosivo. Alla moglie, come lei stessa raccontò a Francesco Merlo, il partito passava due milioni al mese quando il marito era in galera. La figlia Ione è una dipendente del partito e ha rivestito un incarico nel Pdl di Napoli. Storie come la sua non interessano più agli ex camerati. Come quella di Barbara Zicchieri, sorella di Mario, ucciso nel 1975 da un fucile a pompa dei rossi, dipendente anche lei del partito ma scampata al naufragio nella scialuppa del Pdl. O come quella di Guido Tabanella, storico sindaco di Mentana, tuttora dipendente del partito.

Mentre i politici creavano la fondazione con i soldi e le case, i 17 dipendenti di An venivano licenziati. E quelli del Secolo d’Italia per mesi non ricevevano lo stipendio. Solo una decina di giorni fa il giornale è stato ceduto alla Fondazione. Mentre il sindacato di destra Ugl non ha fatto barricate a difesa dei dipendenti nella vertenza con il partito. Si è arrivati così al paradosso del 24 settembre scorso. Di fronte ai liquidatori di An che avevano avviato il licenziamento collettivo per i 17 dipendenti a maggio, all’incontro di fronte all’assessorato al Lavoro della Regione Lazio, alla presenza dei rappresentanti di Ugl e Cgil, i lavoratori di An hanno scelto di farsi rappresentare dal sindacato rosso. E hanno ottenuto una cassa integrazione doppiamente straordinaria. L’istituto concepito per le crisi temporanee di un’impresa viva è stato applicato a un partito morto.

da Il Fatto Quotidiano del 4 dicembre 2012

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