Da una parte la bellezza dei filmati di repertorio, con un Battisti in bianco e nero che duellava con Mina o che – capelli afro e baffetti – interpretava con trasporto ipnotico Il tempo di morire, prima di incentivare quella sparizione di sé da cui uscì soltanto saltuariamente (e sempre nella tivù svizzera, come l’ultimo Gaber). Immagini così preziose da bastare a se stesse. Purtroppo l’archivio Rai ha un difetto: è della Rai. L’interpretazione postuma, facilona e nazionalpopolare, troppo spesso depaupera il contenuto. Lungi dall’inseguire la sottrazione, lasciando che a parlare di Battisti fosse Battisti, Giletti ha costruito – all’Auditorium di Napoli – un carrozzone indigesto. Testimonianze ora irrinunciabili (Mogol, la lettera di Celentano) e più spesso irrilevanti : davvero a qualcuno interessa cosa pensa Marino Bartoletti di Battisti? E davvero gli italiani, con tutti i Golgota che devono affrontare, si meritano – ancora – i ricordi di Mario Luzzatto Fegiz “quella volta che parlai con Lucio”? Surreale la testimonianza di Claudio Martelli, precettato per dimostrare che Battisti “non era di destra”. Scontata la tendenza a ridimensionare il periodo post-Mogol, che per un battistiano doc come Edmondo Berselli era lo spicchio di carriera più stimolante. Continuo il saliscendi artistico: prima il Battisti originale, poi le cover sconfortanti. Patty Pravo non proprio al top, Zarrillo (sì, Zarrillo), una commossa (ma ahinoi non commovente) Loretta Goggi. E un Mario Biondi bravo, ma caricaturale nella versione borbottante – alla Barry White – di Amarsi un po’. Lucio Battisti è stato genio spigoloso e irripetibile. Ben altro ricordo meritava. E merita.
Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2012