Se pensate che l’Europa stia condizionando la politica interna italiana, allora dovreste andare ad Atene in questi giorni. “Con il versamento dei 34 miliardi deciso dall’Eurogruppo per noi comincia un nuovo giorno, la dracmofobia è finita”. Antonis Samaras, il primo ministro ostenta un ottimismo obbligato nelle sale ovattate del palazzo del governo, mentre fuori la polizia blocca diversi isolati, davanti al Parlamento c’è la quotidiana manifestazione.

La versione ufficiale è che il dramma finanziario è finito: la Grecia non andrà in default, niente bancarotta, niente uscita dall’euro. Il piano imposto dal Fondo monetario internazionale, il buyback, ha funzionato: con 10 miliardi di euro la Grecia ha ricomprato vecchio debito pubblico in circolazione, sostituendo così titoli molto costosi, ma trattati a sconto con nuovi a un tasso più basso. L’Eurogruppo ha quindi ottenuto il permesso dal Fondo monetario per sbloccare altri 34 miliardi di prestiti agevolati ad Atene. Che andranno a ricapitalizzare le banche “e sarà risolto il principale problema della Grecia, la liquidità. Da anni siamo un’economia in cui non circolano soldi” spiega Dimitris Daskalopoulos, presidente della Sev, la confindustria greca.

Superata o almeno congelata l’emergenza suprema, quella del default, sarà sempre più difficile giustificare agli occhi dei greci la situazione del Paese. “Siamo diversi dai nostri vicini dei Balcani, noi siamo capaci di fermarci un attimo prima dell’abisso” dice Alexis Papachelas, il direttore di Kathimerini, quotidiano delle élite, assai scettico sui trionfalismi governativi. “L’inverno sarà il vero test per la tenuta della società greca” sostiene, mentre ad Atene già circola la voce di una possibile crisi di governo a inizio 2013.

LA POLITICA SVUOTATA – In Grecia la democrazia è nata un paio di millenni fa e ora lì sta sperimentando una conformazione sconosciuta per la storia locale ed europea. Per la prima volta al potere c’è un governo di coalizione: la destra di Nuova Democrazia di Samaras è il perno, poi ci sono i socialisti del Pasok, dentro la maggioranza, ma non esprimono ministri (la loro popolarità è già crollata, visto che erano loro al comando quando la crisi è esplosa, dal 44 al 12 per cento), e la Sinistra democratica di Fotsi Kouvelis che serve soprattutto a fare numero. Un equilibrio precario che si regge su una speranza: non serviranno più misure di rigore. “Sarebbe impossibile per il Parlamento approvare nuovi pacchetti di austerità” spiega Evangelos Venizelos, il presidente del Pasok, ex ministro delle Finanze. I socialisti sono fuori dall’esecutivo ma, come dice Venizelos, “la Costituzione è stata deformata e quello che ora conta sono soltanto i vertici a tre tra i partiti della maggioranza”. Peccato che anche i partiti non decidano più nulla.

LA RIPRESA IMPOSSIBILE – La politica greca oggi è gestita così: c’è la Troika, il terzetto di creditori composto da Commissione europea, Bce e Fmi, che vigila sul rispetto da parte del governo del memorandum of understanding del maggio 2010, la lista di riforme richieste in cambio degli aiuti. I funzionari della Troika non parlano neppure off the record, sono dei fantasmi, consapevoli dell’odio dei greci verso di loro, da mesi disertano l’abituale Hotel Grande Bretagne a piazza Syntagma e dormono in periferia. Poi c’è la Task Force Greece, un team di esperti guidato da un tedesco, Horst Reichenbach, che spiega alla Pubblica amministrazione greca come rispettare gli impegni pretesi dalla Troika: 30 per- sone a Bruxelles, altre 20 ad Atene.

Dopo quasi tre anni di “aggiustamento”, è tempo dei primi bilanci per questa democrazia sotto tutela. Il rigore, fatto di tagli ai costi (salari pubblici, pensioni, servizi) più che di nuove tasse, ha ridotto il Pil del 21,8 per cento in tre anni. Il default dell’Argentina nel 2011, per fare un paragone, era costato il 19,5. La Grecia ha azzerato il deficit primario (cioè prima di contare gli interessi sul debito) che era il 10,4 per cento del Pil nel 2009, e nel 2013 potrebbe andare in surplus. I conti, quindi, migliorano. Ma a leggere un rapporto della società di consulenza McKinsey, ben noto anche al governo di Atene, non pare che l’economia sia pronta a ripartire. Il 97 per cento della crescita del Pil prima della crisi, secondo McKinsey, dipendeva dai consumi pubblici e privati, a loro volta fondati sul debito. E il consumo interno non ripartirà presto, visto che la Troika prevede un aumento di competitività fondato sul taglio del costo del lavoro: -27,5 per cento in tre anni. Ma i prezzi non si riducono, Atene è costosa come Roma. “In Grecia i diritti dei lavoratori non esistono più, i contratti collettivi sono stati aboliti per legge” si scalda Ioannis Panagopulos, leader del sindacato del settore privato Gsee, “e dopo 36 scioperi generali nessuno può più permettersi di saltare un giorno di paga”. Tutto questo avrebbe dovuto portare investitori stranieri attirati dal basso costo del lavoro. Invece niente. In privato alcuni ministri confidano che per ora si registrano investimenti cinesi nel porto del Pireo e un interesse russo per la privatizzazione delle compagnie energetiche pubbliche. “Nessuno investe in un Paese in cui le tasse cambiano ogni 15 giorni”, è pessimista Rena Dourou, parlamentare e portavoce di Syriza, la sinistra d’opposizione. La disoccupazione è al 24,8 per cento, in continua crescita. Ma non ci sono alternative. Tutti i politici e ministri con cui si parla ad Atene ripetono la stessa formula: “L’aggiustamento è troppo pesante, ma dobbiamo ritrovare competitività, ce la faremo”. Non possono dire altro, non spetta a loro decidere.

Twitter @stefanofeltri

da Il Fatto Quotidiano del 15 dicembre 2012

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