Nel Basso Piemonte la ‘ndrangheta c’è. Un gruppo di persone sono state battezzate e si sono affiliate alle cosche insediate qui, ma il Tribunale di Torino non può condannarli. Ci sono i riti, il controllo interno dell’organizzazione con dei codici d’onore e delle sanzioni, le armi e il sostegno ai familiari dei carcerati, però non c’è quel “metodo mafioso”, la “forza di intimidazione”, necessario per condannarli secondo l’articolo 416 bis del codice penale. Lo sostiene il giudice per le udienze preliminari Massimo Scarabello nelle motivazioni della sentenza con cui l’8 ottobre scorso ha assolto sedici imputati accusati di appartenere alle locali della ‘ndrangheta di Alba, Sommariva del Bosco, Novi Ligure e zone tra Alessandria e Cuneo. “Il fatto non sussiste”, scrive. Solo uno di loro, Francesco Bruno Pronestì, è stato condannato per porto abusivo di arma da fuoco.
Il gup ha emesso questo verdetto in contrasto con quanto sostenuto in alcune sentenze della Cassazione chiamata a verificare il merito delle misure cautelari, scattate nel giugno 2011 con l’operazione dei Ros e della Direzione antimafia di Torino chiamata “Albachiara”, che ha portato in carcere anche l’ex consigliere comunale del Pdl Giuseppe Caridi, all’epoca dei fatti presidente della Commissione territoriale
Accogliendo l’impostazione della Procura di Torino i giudici della Cassazione hanno evidenziato più volte l’esistenza della ‘ndrangheta in Piemonte considerando che le cosche in questione agiscono in “regioni refrattarie” e non si possono comportare con gli stessi metodi adottati in Calabria: “Quel che costituisce elemento essenziale della associazione, nella specie, di ‘ndrangheta, non è l’attualità dell’esercizio della intimidazione, ma la sua potenzialità, la sua capacità di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con gli affiliati all’organismo criminale”, scriveva la corte Suprema in un’ordinanza.
Per il gup di Torino queste argomentazioni “non possono essere condivise” perché manca la “sua caratteristica essenziale, ossia lo sfruttamento, per il raggiungimento degli scopi, delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla forza intimidatrice del vincolo associativo”. Non si possono punire neanche il “potenziale” sfruttamento delle intimidazioni, la presenza di una “mafia silente” e il presagio che in un futuro possano essere compiuti dei reati tipici della ‘ndrangheta, come i traffici di droga, le estorsioni, le minacce o il controllo di attività economiche. “Non si può richiamare la mafia ‘silente’ per sopperire alla mancanza di prova (o alla mancanza tout court) del requisito della forza intimidatrice”, scrive nelle motivazioni. Poi continua: “Ciò che è pericoloso, e che l’ordinamento vuole sia punito, non è tanto l’aspetto organizzativo-strutturale del ‘locale’, ma il fatto che esso si innesti effettivamente nella società civile, ne alteri le regole incutendo timore e soggezione, sia conosciuto, rechi con sé il diffuso alone di intimidazione di cui tanto si è scritto”. Insomma, non basta la presenza del marchio “’ndrangheta” e di una sorta di franchising se questa non commette i reati per cui è nota.
Inutile quindi il tentativo in extremis della Dda di portare, il 5 ottobre, la documentazione di un episodio significativo. Durante una seduta della Commissione territoriale del Comune di Alessandria sulla variazione del “Piano esecutivo convenzionato” per la realizzazione di un complesso immobiliare a Valle San Bartolomeo, l’ex consigliere dell’Italia dei Valori Paolo Bellotti si era opposto alla volontà di Caridi di tenere le riunioni in orari sconvenienti per gli animatori del comitato contrario al progetto. Ne era nato un diverbio acceso tra il consigliere dell’Idv e il presidente della Commissione, un diverbio in cui il primo ha dato del “quaquaraquà” a Caridi, che per tutta risposta ha lanciato una sedia sull’oppositore. “Tali circostanze non possono essere rappresentative dell’esistenza di un clima di diffusa intimidazione creato dalla penetrazione della associazione ‘ndranghetistica nel territorio del basso Piemonte”, scrive il gup. Bellotti voleva denunciare il fatto, ma un suo compagno di partito, Vincenzo De Marte, gli avrebbe detto di non farlo perché “si era cacciato in un guaio più grosso di lui”. In cambio delle scuse di Caridi il politico dell’Idv non sporge denuncia. Solo dopo gli arresti – sottolinea il giudice – Bellotti ripensa all’episodio e ai possibili interessi della ‘ndrangheta sull’operazione immobiliare. Interessi documentati da un’indagine svolta dalla “Casa della legalità” di Christian Abbondanza in cui emergono alcuni legami dubbi, come l’azienda la RG costruzioni di Sergio Romeo, altro affiliato.
“Allo stato e stando agli atti del presente processo non è altro se non una notizia giornalistica”, continua il gup. Alcuni atti sono stati acquisiti in un fascicolo “modello K”, un’indagine conoscitiva non contenente notizie di reato, ma non sono state adottate “ulteriori iniziative istruttorie volte a verificare se in qualche aspetto del percorso amministrativo finalizzato a consentire la realizzazione del progetto vi possano essere state deviazioni dalle regole per effetto di pressioni ricollegabili alla capacità di intimidazione di gruppi ‘ndranghetistici, ovvero per accertare quali fossero i centri di interessi sottostanti alle imprese che tale progetto hanno presentato, o l’esistenza di eventuali collegamenti con appartenenti al locale di ‘ndrangheta”. Neanche la Commissione d’indagine sull’urbanistica del Consiglio regionale ha trovato: il consigliere del Movimento 5 Stelle Davide Bono non ha segnalato nessuna irregolarità negli atti amministrativi, sebbene abbia partecipato agli incontri organizzati dal comitato contrario ai progetti immobiliari insieme ad Abbondanza.