Il presidente della Repubblica, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Le sue conversazioni sono inviolabili anche in presenza di reati comuni. Anche se, per pura ipotesi, svelassero prove di reati gravissimi. E’ questo il cuore delle motivazioni, depositate oggi, con cui la Corte costituzionale ha dato ragione al Quirinale nel conflitto d’attribuzione sollevato contro la Procura di Palermo inrelazione all’inchieste sulla trattativa Stato-mafia.
Unica eccezione, rileva la Consulta nella sentenza, la commissione di reati funzionali di rilevanza istituzionale come l’alto tradimento o l’attentato alla Costituzione. E comunque è un Comitato parlamentare a poter decidere in questo senso e solo dopo che la Consulta lo abbia sospeso dalla carica di capo dello Stato. In tutti gli altri casi – e in questo rientrano anche le conversazioni irrilevanti penalmente del Quirinale con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino all’epoca indagato dalla Procura di Palermo per falsa testimonianza – “la ricerca della prova riguardo a eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
In quarantanove pagine i giudici della Corte Costituzionale spiegano perché il capo dello Stato è intoccabile, perché i magistrati avrebbero dovuto distruggere immediatamente le conversazioni di Giorgio Napolitano con Nicola Mancino e anche perché “la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato”. Il presidente non può essere assimilato a un ministro, né a un parlamentare e le sue funzioni “formali” e “informali” , come “incontri, comunicazioni e raffronti dialettici”, godono di una “riservatezza assoluta”.
Un paradosso se si pensa che il capo dello Stato “è comunque è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini” anche se “non ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova” ovvero le intercettazioni. Dopo l’udienza pubblica del 4 dicembre, la Corte aveva quindi fatto sapere di aver accolto la posizione del Capo dello Stato, affermando che non poteva essere intercettato neppure in via indiretta e che i nastri dovranno essere distrutti in base all’art. 271 cpp, garantendo la segretezza del loro contenuto. Oggi sono stati resi noti i motivi di quel verdetto.
Il capo dello Stato: un cittadino come gli altri, ma mai intercettabile. E’ ovvio e i giudici lo ricordano che per eventuali reati commessi al di fuori delle competenze anche il capo dello Stato è un cittadino come un altro: “Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
“Presidente al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato”. Per i magistrati “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente della Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri” non distruggendo immediatamente le conversazioni. I giudici osservano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”.
La Consulta ritiene quindi che il capo dello Stato, sia per quanto attiene alle sue “attività formali che quelle informali … deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto a una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte”. Quindi vanno anche oltre nella tutela: la sola “propalazione” del contenuto dei colloqui del Capo dello Stato con chiunque “… sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri”. Per questo la soluzione indicata dalla Consulta per risolvere il conflitto è “distruggere nel più breve tempo le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica”. Secondo i giudici, infatti, la distinzione tra “intercettazioni dirette, indirette, e casuali … non assume rilevanza” perché le quattro le conversazioni di Napolitano intercettate, che i pm hanno sempre definito “irrilevanti” ai fini del procedimento, non potevano essere valutate dai pubblici ministeri: “… non spettava ai pm” né valutare la rilevanza della documentazione né “omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione”.
Intercettabile solo su autorizzazione del Comitato Parlamentare. Tuttavia “la perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali”. E’ solo il “Comitato parlamentare” che ha “il potere di deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, sempre dopo che la Corte costituzionale abbia sospeso lo stesso dalla carica: un’eccezione … di intercettare le comunicazioni del Capo dello Stato. La norma eccezionale si contiene nei limiti strettamente necessari all’attuazione processuale dell’art. 90 Cost. – che costituisce, a sua volta, norma derogatoria – disponendo, per di più, che, finanche nell’ipotesi di indagini volte all’accertamento dei più gravi delitti contro le istituzioni della Repubblica previsti dall’ordinamento costituzionale, siano interdette agli investigatori intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente in carica”. I giudici spiegano anche che non c’è una “lacuna normativa”, ma si tratta di “presupposizione logica” e che comunque l’individuazione di una figura che possa autorizzare l’intercettazione del presidente, in casi diversi, è “una norma di rango costituzionale”.
“Non è salvaguardia della persona, ma della efficacia delle funzioni”. Non si tratta di tutelare il presidente della Repubblica in quanto persona, ma in pratica la sua funzione costituzionalmente garantita. I giudici ricordano in questo senso proprio la legge fondamentale dello Stato sulle eventuali responsabilità del capo dello Stato: “L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico”. Con tali norme non si tutela la persona, ma l’istituzione: “Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali, giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e sull’integrazione dei poteri dello Stato”.
La Costituzione non è sacrificabile rispetto alla simmetria processuale. “Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale”. Per i giudici costituzionali quindi il capo dello Stato ha ragione su tutta la linea: “Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate. Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento”.
Per tutti questi motivi le toghe di Palazzo dei Marescialli concludono che “non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08″ e che “non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate”.
“Pubblicazione intercettazioni vulnus che va evitato”. Non solo il capo dello Stato non può essere intercettato, ma proprio in relazione alle sue funzioni, al suo ruolo le sue conversazioni non possono essere rese pubbliche e anche la rivelazione dell’esistenza è da evitare: “È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta”. Tale “inderogabilità discende dalla posizione e dal ruolo del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano e non può essere riferita ad una norma specifica ed esplicita, poiché non esiste una disposizione che individui un soggetto istituzionale competente ad autorizzare il superamento della prerogativa. Non si tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della presupposizione logica, di natura giuridico-costituzionale, dell’intangibilità della sfera di comunicazioni del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato”.