Si chiama Re della Terra Selvaggia, ma molti ormai lo conoscono con il titolo originale Beasts of the southern wild, visto che è almeno un anno che gira per festival raccogliendo premi, lodi e sponsorizzazioni importanti (la più importante delle quali è stata quella del presidente Barack Obama), fino all’annuncio poche settimane fa delle quattro nomination agli Oscar: quattro di quelle pesanti: miglior film, regia, sceneggiatura non originale e miglior attrice Quvenzhane Wallis, 9 anni, la più giovane candidata della storia. Una prestazione incredibile per un film indipendente, realizzato con una cifra che sarebbe piccola in Italia ma è microscopica per gli standard americani, poco meno di due milioni di dollari, e senza il minimo riguardo per le leggi che dominano il cinema commerciale.
La trama del film è quella di una bambina e della sua educazione alla vita in un luogo incredibile e sconosciuto degli Stati Uniti (il sud della Louisiana, una regione paludosa funestata di continuo da uragani e calamità naturali, in cui esiste una popolazione che fa civiltà a sé), una storia che unisce la tenerezza dei sentimenti all’asperità di una vita in cui l’uomo cresce seguendo le medesime regole degli animali.
La scalata della pellicola è partita tutta dalla conquista del premio della giuria al Sundance Film Festival, il tempio del cinema indipendente statunitense (cui il film ha avuto accesso poiché era stato al Sundance Lab, laboratorio in cui i registi vengono aiutati a perfezionare le loro idee per il cinema), e da lì è stato a chiamato a Cannes (dove di nuovo ha vinto un premio quello per le opere prime, la Camera d’Or) e poi in altri festival per il mondo, da cui è sempre uscito con qualcosa in tasca. L’ultimo è stato il festival di Kustendorf, gestito e creato da Emir Kusturica che ci ha tenuto personalmente a elogiare l’opera.
Re della Terra Selvaggia sarà nelle sale italiane dal 7 Febbraio in un numero ristretto di sale, puntando su un buon passaparola e in attesa di notizie positive dalla serata degli Oscar il 24 febbraio. L’unico a essere ormai ampiamente soddisfatto è però Benh Zeitlin, l’autore del film: “Gareggerò con i migliori registi del mondo, quelli con cui sono cresciuto e che mi hanno insegnato il cinema. E in ogni caso il film riceverà molta pubblicità. Direi che va bene già così”.
Escono tantissimi film piccoli e indipendenti ogni anno, perché secondo te il tuo ha avuto quest’incredibile successo? Hai capito qual è il suo segreto?
“Non lo so, forse ci sono troppo dentro per dirlo. Sai, è un film a cui hanno lavorato tutte persone che non avevano mai fatto un film prima d’ora, non segue proprio lo svolgimento normale cui siamo abituati, ma al tempo stesso è tratto da un’opera teatrale quindi ha dentro di sé tanti elementi che tutti conoscono e riconoscono, come i racconti popolari e le fiabe. Penso sia un ponte riuscito tra la semplicità dei film commerciali e le ambizioni artistiche di quelli di nicchia che alla fine somigliano più a E.T. che ai film di Cassavetes”.
Nel film racconti un’umanità incredibile e zone dell’America che non siamo abituati a vedere, non sembrano nemmeno gli Stati Uniti, come l’hai scoperte?
“Sì, è un po’ lontano da New York o Los Angeles [ride, ndr]. Quando sono arrivato nel sud della Louisiana mi sono subito innamorato di quella gente che vive secondo una scala di valori completamente diversa da quella del resto del mondo, è gente che qualsiasi cosa abbia mai posseduto nella vita l’ha vista distrutta dagli uragani. E più volte. Ciò nonostante rimane a vivere lì, sviluppando una resistenza che li porta a capire cosa siano le uniche cose che contano nella vita”.
Il cinema americano non ne parla mai però…
“Sono luoghi dov’è impossibile girare, richiede uno sforzo pazzesco e le condizioni sono proibitive. Però hai davanti a te scenari e storie uniche. Gli attori che hanno lavorato erano professionisti del luogo, non veri abitanti di baracche, ma le storie dei loro personaggi vengono da quel background. Una volta ho chiesto a uno dei residenti di quelle zone perchè non se ne andassero da qualche altra parte a vivere e mi ha risposto che loro sono piante da palude, possono crescere e prosperare solo lì, se sradicate e piantate altrove muoiono”.
Se dovesse arrivare il successo passerai alle produzioni in grande stile?
“Per il momento no. Voglio continuare a girare in questa maniera, con questi budget e questa troupe nel sud della Louisiana, ci sono moltissime storie che possono essere raccontate ed è un luogo in cui sto bene e dove intendo vivere e lavorare a lungo”.
A cura di Gabriele Niola