Saranno distrutte le conversazioni, intercettate nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano? Lo potrebbero essere già martedì 5 febbraio anche se il giudice per le indagini preliminari non è vincolato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito l’inviolabilità delle conversazioni del presidente della Repubblica e ordinato alla Procura di Palermo la distruzione. I magistrati inquirenti, dopo il verdetto della Consulta, avevano presentato l’istanza al magistrato competente, ma è un giudice che deve decidere.
Il giudice del tribunale di Palermo che dovrà decidere, Riccardo Ricciardi, ha convocato il perito che dovrebbe procedere all’eliminazione dei supporti magnetici e delle tracce informatiche contenute nei server della Procura. Il gip si è riservato pero’ anche qualche giorno di riflessione, dopo avere ascoltato i dialoghi registrati nell’ambito dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Il giudice Ricciardi, che non è vincolato dalla decisione della Consulta (valida solo per le “parti”, dunque la Procura e il presidente della Repubblica), potrebbe anche stabilire di sollevare una nuova questione di costituzionalità. Lo scopo, in prima battuta, sarebbe una sorta di richiesta di chiarimento, di fissare cioè regole generali e astratte, valide per tutti i casi simili, con una sentenza “additiva” del contenuto della legge sulle intercettazioni, quando queste riguardino il presidente della Repubblica.
La Consulta finora ha ordinato la distruzione delle conversazioni, vietandone qualsiasi valutazione ai pubblici ministeri e soprattutto l’udienza con la partecipazione degli altri imputati. Stando al dettato della Corte costituzionale, poi, il giudice, dopo avere ascoltato i colloqui in maniera molto riservata, deve verificare se quanto Napolitano e Mancino si dicevano fra di loro possa mettere in discussione valori superiori all’integrità del presidente, e cioè quelli che riguardano la tutela della vita, della libertà personale e la sicurezza dello Stato. Ricciardi potrebbe ritenere che ci siano anche altri valori costituzionali da tutelare, come il diritto di difesa di altri imputati. Anche se i giudici della Consulta hanno stabilito che il presidente della Repubblica, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Le sue conversazioni sono inviolabili anche in presenza di reati comuni. Del resto il capo dello Stato, hanno ricordato i giudici, è stato “collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. Entro martedì, comunque, dovrebbe arrivare la decisione finale.
Sul verdetto della Consulta oggi ritorna ancora Antonio Ingroia: “Non ho avuto torto: la Consulta mi ha dato torto, ma io ho ragione” dice a Omnibus su La7. Allora, quella della Corte Costituzionale fu una sentenza politica? “Intendiamoci, non nel modo in cui – risponde Ingroia – lo direbbe Berlusconi, però ogni interpretazione di diritto e Costituzione ha un suo tasso di politicità. In questo caso, non c’è dubbio che il codice di procedura penale prevedeva la procedura seguita dalla Procura di Palermo. Per la Consulta bisognava seguirne un’altra e scegliendo è prevalsa quella politica, detto tra virgolette, di circondare il Capo dello Stato di maggiori garanzie di quanto fosse previsto fino a prima di questa sentenza”. Ingroia aggiunge allora che “ritengo anche impropria la scelta della Consulta di farlo in sede di conflitto di attribuzione, quando bisogna invece dire chi ha ragione e chi torto a legislazione vigente”.