Mi è capitato recentemente di assistere a un dibattito sul Mali in una libreria di Roma. Molto sorprendente. La libreria – specializzata in tematiche africane – era affollatissima. Il pubblico era composto di persone molto bene informate. Gli oratori assai qualificati.

Questa è stata una sorpresa. La quantità d’informazione che arriva al grande pubblico italiano in materia africana è talmente misera, approssimativa, tendenziosa, ignorante, che scoprire tanta gente, molti giovani, che è capace di informarsi per conto proprio, è, di per sé, una buona notizia.

Ma, per me, la sorpresa maggiore è stata l’osservazione della siderale differenza tra le relazioni e gli interventi “europei” e quelli dei tre africani che hanno preso la parola.

In che consisteva la differenza? Nel fatto, evidente, che, mentre gli europei “analizzavano”, gli africani (tutti e tre giovani, due uomini e una donna) “raccontavano”.

Il loro era un rosario di fatti, di circostanze, di cronaca individuale e collettiva. Era un racconto dei luoghi in cui sono nati, dell’etnia cui appartengono, delle parentele che s’intrecciano, delle peripezie dei viaggi che li avevano portati fin qui, a Roma, lontani dalle loro case. Racconti pieni di nomi di città e villaggi sconosciuti; di grandi fiumi attraversati; di regnanti locali, per chi parlava molto importanti, per noi che ascoltavamo del tutto nuovi e sonori come suoni di tamburi lontani.

Apparentemente fuori tema. Ma solo apparentemente. Senza quei suoni, per noi abituati ai nostri alfabeti ormai americanizzati, quella discussione sarebbe stata completamente diversa. Uno degli oratori africani ha addirittura cantato, nella lingua del Senegal, forse una poesia, forse una canzone vera e propria, senza neppure tradurla. Pensava che bastasse che lo sentissimo nel prorompere del suo sentimento. E, in effetti, mi è parso perfino di avere capito.

Anche molti del pubblico, per certi aspetti sconcertati di queste irruzioni a-tematiche, ascoltavano pensosi. Altri non parevano gradire: non l’approssimazione della loro lingua italiana, non il tempo lunghissimo dei loro racconti, non la sonorità sconosciuta delle loro voci.

E io ho pensato allo “scontro di civiltà” tra noi e loro. Che da oltre tre secoli è in atto e del quale loro non portano responsabilità, ma che percepiscono acutamente, mentre noi, che ne abbiamo tratto vantaggio, abbiamo accuratamente dimenticato, oppure – se e quando ce lo ricordiamo –  riteniamo un nostro diritto e ne rivendichiamo il valore “universale”.

Tornato a casa sono andato a cercare le parole che quella discussione così asimmetrica mi aveva fatto tornare alla mente. Le ho trovate, sono di Ernesto Balducci (La terra del tramonto). Eccole. Riguardano la parabola della modernità, che sta tramontando. I nostri valori , che abbiamo dichiarato unilateralmente “universali” sono, nostro malgrado, sempre meno universali. E noi “stiamo entrando, ma con passi malcerti, in un continente epocale in cui avremo bisogno non solo di rimeditare i libri della nostra sapienza, ma anche di assaggiare i liquori arcani che le tribù, da noi dette primitive ma antiche come la nostra, hanno custodito per millenni e millenni in anfore coperte dalla polvere del nostro disprezzo”.

 

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