L’avvio dell’inchiesta della Corte dei Conti sui derivati sottoscritti dal Comune di Roma apre un nuovo capitolo del lungo romanzo sulle bombe contabili ad orologeria di cui gli enti locali italiani stanno cercando di disfarsi. Fino ad ora le avventure senza precauzioni nella “finanza estrema” di sindaci e presidenti hanno causato danni alla collettività che la stessa Corte stima in 120 miliardi di euro. Sdoganati con la finanziaria 2002 (ministro del Tesoro Giulio Tremonti) i derivati sono stati usati troppo e male. Molti amministratori li hanno impiegati per tentare di nascondere le perdite sotto al tappeto spostandole nel tempo e magari accollandole alle giunte successive. Le banche, al solito, ci hanno sguazzato, offrendo di tutto e di più e celando i rischi di perdite che questi strumenti possono comportare.
La buona notizia è che qualcosa inizia però finalmente a cambiare. Stando alle ultime rilevazioni del ministero dell’Economia, l’ammontare dei debiti dei Comuni su cui sono stati stipulati contratti derivati è infatti sceso negli ultimi 4 anni da 15 a 8 miliardi di euro. Dal 2009 sono stati estinti 825 contratti e il numero dei sindaci alle prese con questi prodotti finanziari è crollato da 559 a 182. Tra i 107 capoluoghi solo 33 hanno al momento derivati in bilancio. A loro volta, seppur più lentamente, anche le Province stanno portando avanti questa complicata opera di “sminamento” dei bilanci. Il valore nozionale dei loro derivati (che indica la quantità dei debiti su cui vengono stipulati derivati, non il valore del contratto in sé) si è assottigliato di 2 miliardi di euro scendendo a 1,7 miliardi. Stabile invece la situazione delle Regioni che hanno ancora in “pancia” contratti per 17 miliardi. Complessivamente il peso dei derivati negli enti locali è quindi oggi di circa 22,6 miliardi contro i 35 miliardi di quattro anni fa.
Due gli elementi che hanno permesso di avviare questo faticoso smaltimento degli eccessi degli anni passati. Nel 2009 lo Stato ha vietato a Comuni, Province e Regioni di sottoscrivere nuovi contratti fino all’emanazione di un apposito regolamento in materia che al momento non ha ancora visto la luce. Ad agevolare la fuga dai derivati sono poi arrivate alcune decisioni dei tribunali che hanno aperto più di uno spiraglio per annullare davanti al giudice contratti sottoscritti improvvidamente e di cui le banche avevano taciuto o nascosto gli elementi di rischio. In questo senso a fare più notizia è stata la decisione del Tribunale di Milano che lo scorso dicembre ha condannato in primo grado Ubs, Deutsche bank, Jp Morgan e Depfa bank per i derivati venduti al comune di Milano nel 2005 (giunta Albertini).
Se la situazione migliora a livello locale, rimangono grandi incognite su quello che invece accade o potrebbe accadere a livello di Stato centrale. La Corte dei Conti ha quantificato in 160 miliardi di euro il valore nozionale dei derivati sottoscritti dal Tesoro. Di questi, 100 miliardi sono “interest rate swap” che, semplificando, permettono di trasformare interessi a tasso fisso in tasso variabile o viceversa. Come sottolinea la Corte il problema non è tanto l’ammontare in sé, quanto la scarsa trasparenza che avvolge questi contratti. In altri termini non è ben chiaro di che tipo di contratti si tratti nel dettaglio, se offrano o meno la possibilità di estinzione anticipata che consente di porre un freno alle perdite e dunque è impossibile stimare il danno potenziale che questi strumenti possono produrre.
Tutte informazioni che, fa notare la Corte, potrebbero aiutare a ridurre la forza di eventuali nuovi attacchi speculativi al debito italiano. I riflettori sui derivati dello Stato si sono accesi lo scorso marzo quando è emerso che il Tesoro aveva chiuso un contratto stipulato nel 1994 con Morgan Stanley perdendo così 2,7 miliardi di euro. Tutti gli Stati fanno uso di derivati per gestire i loro debiti e, a fronte di un contratto in perdita, potrebbero essercene altri che hanno garantito risparmi pari o superiori. E’ però lecito chiedersi se, sull’esempio del Comune di Milano, anche il Tesoro avrebbe potuto fare la voce grossa e liberarsi del contratto davanti a un giudice. Difficile dirlo, innanzitutto perché non si conoscono i dettagli del contratto in questione. In via ipotetica, per percorrere questa strada il Tesoro dovrebbe dimostrare di essere stato truffato ormai quasi 20 anni fa. La sentenza dei giudici milanesi è infatti chiara nello specificare che la condanna non è legata al derivato in se, alla sua complessità o alle perdite che avrebbe potuto produrre quanto al deliberato intento dei banchieri di ingannare Palazzo Marino mentendo su caratteristiche e rischi del prodotto finanziario.