Si torna a parlare di reddito minimo, dopo l’infelice esperienza del reddito di inserimento e quella discutibile della social card. Ma quanto può costare? E come evitare la “trappola della povertà”? Come impedire gli abusi e l’accesso ai soliti furbi? L’esperienza promossa dalla provincia autonoma di Trento.
di Gianfranco Cerea, lavoce.info, 15 Marzo 2013
L’esperienza del Trentino
Le politiche di reddito minimo tornano (finalmente) a comparire nel dibattito politico. Dopo l’infelice esperienza del reddito di inserimento e quella discutibile della social card è confortante sapere che qualche cosa si potrebbe fare rispetto a una importante forma universale di tutela, che ancora manca nel nostro ordinamento. Come sempre accade quando ci si confronta con misure di carattere innovativo i dubbi e le incertezze possono però esercitare una azione paralizzante. Quanto può costare? Come evitare la “trappola della povertà”, ovvero la tendenza a permanere nella condizione di eleggibilità? Come impedire gli abusi e l’accesso ai soliti furbi? Può perciò essere interessante guardare all’esperienza promossa dalla provincia autonoma di Trento.
Nel corso del 2009 la provincia autonoma di Trento ha rivisto le proprie politiche assistenziali, introducendo, a partire dall’ottobre dello stesso anno, il “reddito di garanzia”. L’intervento prevede l’erogazione di un beneficio monetario il cui importo è pari alla differenza tra l’effettiva condizione economica del nucleo e la soglia di povertà relativa, definita in base alle caratteristiche del nucleo stesso. Ad esempio, una famiglia di tre componenti, con un reddito di 700 euro mensili ha diritto a una integrazione di circa 400 euro. La somma spettante è poi eventualmente integrata di un importo per il sostegno del canone d’affitto. L’intervento è per quattro mesi, rinnovabili dopo verifica e per non più di tre volte in due anni. L’erogazione (mensile) della spettanza è garantita entro la fine del mese entro cui è stata effettuata la procedura amministrativa, contestuale alla domanda per gli anziani e tutti coloro che lavorano o hanno perso da poco l’occupazione. Per gli altri soggetti l’erogazione è invece subordinata a una valutazione puntuale da parte dei servizi sociali.
La condizione economica dei richiedenti è valutata in base a reddito (al netto delle imposte, delle spese mediche e dell’affitto/rata del mutuo, ma comprensivo di sussidi e di ogni altra voce d’entrata del nucleo) e patrimonio (con la sostanziale sterilizzazione della prima casa), affiancati da indicatori di consumo (auto, ampiezza dell’abitazione, affitto), in base ai quali circa il 17 per cento delle situazioni è stato dichiarato incongruo.
I beneficiari
Da quando la misura è stata introdotta nel 2009 e sino a dicembre 2012, i nuclei beneficiari sono stati complessivamente circa 10 mila, con una media di “ingressi” mensile pari a 251 unità. La misura ha mediamente interessato il 3,9 per cento della popolazione. Rispetto agli stranieri, ha riguardato il 17 per cento dei soggetti, contro il 2 per cento della restante popolazione. Oltre il 60 per cento dei nuclei interessati è rappresentato da famiglie con minori, mentre quelle di soli ultra 65enni sono il 12 per cento. I casi interessati dai servizi sociali sono l’8 per cento. A dicembre 2012 risultavano assistiti 3.448 nuclei familiari, per un complesso di 10.591 persone.
Il 25 per cento dei nuclei beneficia della misura una sola volta per quattro mesi. Per due volte è il 20 per cento e per tre il 12 per cento. Ciò significa che, nonostante la crisi economica, la misura tende ad avere un carattere provvisorio, ovvero risulta coerente rispetto all’idea di realizzare un ammortizzatore, rispetto alle condizioni di bisogno, che comunque promuova la responsabilizzazione dei soggetti interessati. Al riguardo occorre osservare che la normativa del reddito di garanzia prevede la sottoscrizione di un impegno alla ricerca attiva di un lavoro e la dichiarazione di disponibilità immediata all’accettazione di un impiego per tutti i componenti del nucleo che non lavorano, pur essendo in grado di farlo.
Per quanto concerne l’efficacia del reddito di garanzia, le analisi mostrano che le famiglie beneficiarie appartengono effettivamente alla fascia di popolazione più deprivata e che il ricorso alla misura avviene non solo per superare episodi transitori di difficoltà economica, ma anche per far fronte a condizioni di povertà strutturale. (1) Inoltre, i risultati preliminari dello studio di valutazione controfattuale basato sulla tecnica del difference in differences hanno messo in luce come il reddito di garanzia abbia:
- indotto cambiamenti nei comportamenti di consumo di alcune categorie specifiche di beni, come quelli durevoli;
- causato lievi aumenti della spesa destinata a beni primari come i generi alimentari;
- lasciato pressoché inalterata la partecipazione al mercato del lavoro.
Sul piano più generale, da quando è stato introdotto il reddito di garanzia la quota di soggetti poveri rilevata dall’Istat si è sostanzialmente dimezzata, qualificando il Trentino come l’area con la minor incidenza della povertà in Italia.
L’entità degli interventi e i costi del reddito di garanzia
Assumendo a riferimento l’anno 2012, l’integrazione media erogata per nucleo familiare risulta di poco inferiore ai 2mila euro, corrispondenti a circa 631 euro a componente. A livello complessivo, l’onere è stato di 21,4 milioni di euro, dei quali 16,3 a favore delle famiglie con minori. I richiedenti di cittadinanza non italiana hanno assorbito quasi i due terzi delle somme erogate.
L’onere per abitante è stato di circa 40,3 euro. Per avere un termine di paragone, le pensioni assistenziali, erogate in Trentino dall’Inps a cittadini con oltre 65 anni, senza reddito o con reddito inferiore ai limiti di legge, ammontano a circa 15 milioni di euro, associati peraltro a una erogazione media che colloca i beneficiari sotto la soglia di povertà (l’importo base mensile della pensione è pari a 336,79, quello dell’assegno a 408,66 euro).
Una previsione a livello nazionale
Quanto è esportabile l’esperienza di Trento? Con quali costi?
Secondo l’indagine dell’Istat, nel Centro-Nord l’incidenza della povertà è pari al 5,3 per cento della popolazione. Un dato abbastanza prossimo a quello del Trentino, se ai locali poveri censiti dall’Istat si aggiungono i beneficiari del reddito di garanzia. Al Sud e nelle Isole la quota quasi quadruplica, portandosi al 21,5 per cento.
La tabella riporta la stima del costo del reddito di garanzia “modello Trento”, ottenuta moltiplicando la spesa per abitante del Trentino per la popolazione delle singole Regioni, corretta in base alla diversa incidenza relativa della povertà – rispetto a quanto osservato a Trento.
L’onere complessivo, che emerge da questa simulazione, è pari a 5,3 miliardi di euro così ripartiti: 1 miliardo al Nord, 0,6 miliardi al Centro e 3,7 miliardi nel Mezzogiorno. La Regione con la spesa maggiore sembrerebbe la Sicilia, con un costo stimato che supera 1 miliardo di euro, ovvero tanto quanto sarebbe richiesto per finanziare la spesa di tutto il Nord Italia.
Se si volesse contenere la spesa l’entità degli interventi potrebbe essere adattata ai differenti contesti territoriali, prevedendo soglie di “garanzia” che tengano conto del diverso costo della vita almeno a livello di grandi circoscrizioni. Ulteriori economie si potrebbero poi ottenere restringendo l’intervento ai soli nuclei con figli minori.
Alla luce degli assetti costituzionali, il “reddito di garanzia” dovrebbe rientrare fra le competenze regionali dell’assistenza e, come tale, gravare sul bilancio di questi enti. Le Regioni a statuto speciale dovrebbero provvedere con risorse proprie, senza cioè richieste di finanziamenti ulteriori allo Stato.
Adottando alcuni accorgimenti e attivando la misura con una certa “prudenza” i costi potrebbero effettivamente risultare contenuti e del tutto paragonabili a quanto lo Stato già sopporta per il sostegno agli anziani attraverso la pensione sociale.
(1) http://irvapp.fbk.eu/sites/irvapp.fbk.eu/files/IRVAPP_PR_2011-05_0.pdf.