Più di 8.200 aziende, oltre 210 mila impiegati, pari al 28 per cento del totale. E solo in Catalogna. La lenta perdita dell’industria made in Spain comincia già nel 2007 e adesso, secondo gli ultimi dati, ha toccato i minimi storici. Il mercato nel Paese iberico è crollato del 30 per cento, lasciando a casa 659 mila lavoratori. E la chiusura delle imprese, a causa della crisi sempre più incisiva, non sembra voler cessare. Nemmeno per le grandi multinazionali.

La prima a chiudere bottega è stata l’antica fabbrica Miniwatt della Philips di Barcellona, nata nel 1960. Ora è in mano alle banche. Ma l’insegna, che porta il motto “Momento di rinnovarci”, è ancora lì, in bella vista: un omaggio ai lavoratori della fabbrica che nel 2000 avevano raggiunto il livello massimo di produzione: cinque milioni di tubi. Cinque anni dopo la fabbrica veniva chiusa. Sprangata. Adesso è solo un grande magazzino pieno di cianfrusaglie.

Pochi giorni fa la stessa sorte è toccata a la Roca, fabbrica di sanitari, che ha licenziato seduta stante 476 dipendenti, un quarto dei suoi dipendenti, chiudendo due degli 11 stabilimenti spagnoli. Seguono a ruota tagli in Alstom, leader mondiale nella costruzioni di infrastrutture ferroviarie, nella fotovoltaica Isofotón di Malaga, nella chimica Ercros e perfino nell’antica azienda nazionale spagnola di cellulosa Ence, nata alla fine degli anni Cinquanta. Senza contare l’industria collaterale del mattone: il settore equivale a un terzo dei 30 punti percentuali di perdita nella produzione manifatturiera iberica dal 2007, secondo i calcoli della Banca di Spagna.

La situazione per la crisi industriale preoccupa anche l’economista Jordi Nadal, un’autorità nel settore. Autore del saggio “Il fallimento della prima rivoluzione industriale in Spagna” ha detto chiaro e tondo, intervistato dalla stampa iberica, che “senza industria non ci sono servizi”. “Fino a dieci anni fa l’industria era disprezzata e si guardava invece con molto più interesse al settore terziario. Il governo di Aznar aveva perfino cambiato il nome del Ministero dell’Industria in Ministero della Scienza e della tecnologia. Adesso il nome è stato recuperato. Ma c’è ancora una bassa considerazione del settore”.

Ne sa qualcosa la Yamaha, l’azienda leader giapponese di moto, che in Spagna, due anni fa, ha dovuto chiudere la sua filiale. E adesso a dare la prima sforbiciata al capitale aziendale è anche il gruppo Danone. Presente in 120 Paesi, con un fatturato annuo di 19 miliardi di euro e oltre 100 mila lavoratori nel mondo, in Spagna ha stabilimenti a Madrid, Barcellona, Valencia, Asturia e nelle isole Canarie. E copre il fabbisogno di oltre 80 mila punti vendita e 12 milioni di consumatori giornalieri. Il prossimo 31 luglio la filiale Danone di Siviglia, dove lavoravano 85 dipendenti con una produzione di 45 mila tonnellate di agroalimentare, sarà chiusa. E la produzione spostata nei laboratori di Madrid e Valencia. Nulla da fare.

Come se non bastasse, a fine marzo anche l’italiana Piaggio abbandonerà il suolo iberico. La storica Derbi di Martorelles, a 20 chilometri di Barcellona, ha già annunciato che metterà in cassa integrazione 98 lavoratori, fino a loro graduale licenziamento. La Piaggio aveva annunciato nel 2011 la sua decisione di chiudere la fabbrica catalana e riportare la produzione in Italia. Ma aveva atteso, paziente, un investitore. Dopo l’interesse e poi la marcia indietro del gruppo Giba Holding, l’azienda di motociclette lo scorso febbraio aveva comunicato la chiusura definitiva della Derbi. Il marchio spagnolo da 12 anni era di proprietà della Piaggio.

Così, vittime della crisi economica e di politiche poco vantaggiose, le fabbriche svaniscono. Ma non serve nemmeno più recuperarle. Per l’economista Jordi Nadal si tratta di ricominciare daccapo. E stavolta seriamente. Perché la prima rivoluzione industriale in Spagna ha già fallito.

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