La faccia di Pier Luigi Bersani, quando esce alle sette e venti di sera dalla porta sorvegliata da due corazzieri, è la stessa di questi giorni. Contrita, pensosa, senza un sorriso che sia uno. Lo scatto d’orgoglio arriva nelle dichiarazioni alla stampa. Per la serie: “Voglio l’incarico”, anche se non lo dice esplicitamente. Nella sala della Vetrata si sente solo il ronzio dei clic fotografici. Bersani parla. Dietro i capigruppo parlamentari del Pd, Luigi Zanda e Roberto Speranza, più defilato il portavoce Stefano Di Traglia. L’attesa consultazione con il capo dello Stato, l’ultima di questa due giorni al Quirinale, si può riassumere in questa formula densa di superlativi: “cordialissima” nella forma, “malissimo” nella sostanza politica. L’eterno scontro, da un anno e mezzo da questa parte, tra il segretario del Pd e il capo dello Stato si è espresso nei tanti “non detto”, da una parte e dall’altra. Uno su tutti, nella testa di Bersani: “O me o il voto”. Che poi dopo, davanti ai giornalisti, abbia precisato che l’incarico “non è un problema personale”, questo appartiene più alla forma che alla sostanza.
STAMATTINA, sia chiaro, il candidato premier del centrosinistra si aspetta un mandato dal Quirinale per varare il governo di minoranza di cui tanto si discute. Un mandato esplorativo almeno, nel senso che poi dovrebbe ritornare da Napolitano e riferire sul giro di incontri. Al momento è questa l’unica ipotesi in campo, al netto di scenari e retroscena, che Bersani difende con una frase dall’incipit paradossale: “Non ho piani B ma non ho neanche un piano A, ho portato la nostra riflessione e poi rispetto il ruolo del presidente della Repubblica per dire come uscire da soluzione difficile. Non abbiamo avanzato subordinate se stiamo alla politica, questo è uno ragionamento per l’avvio della legislatura”. Senza “subordinate”, significa che oggi eventuali nomi diversi fatti dal capo dello Stato per un incarico sarebbero interpretati come “uno schiaffo” al maggior partito del Paese.
Ne sono convinti tutti nel Pd, anche chi non è troppo vicino a Bersani ammette: “Domani mattina (oggi per chi legge, ndr) è impensabile che Napolitano dia l’incarico a Grasso per un governo di scopo o del presidente”. Su questo si scommetterà per tutta la notte nel partito, centellinando e interpretando, ancora una volta, il resoconto del colloquio durato più di un’ora al Quirinale.
Il segretario del Pd a Napolitano ha ribadito che “governabilità e cambiamento” sono “inscindibili”. Sulle strategie e sulle valutazioni di Napolitano, teorico delle larghe intese, in questa lunga partita a scacchi che sta per concludere la sua prima fase, Bersani ha piantato un paletto grosso: “Io sento, e il mio partito sente, di avere una responsabilità da esercitare per fare qualcosa per il Paese. La nostra intenzione è di mettersi al servizio per trovare una soluzione non qualsiasi, un governo che non è di cambiamento porterebbe il Paese a guai peggiori”. Evidente la chiusura al Pdl in quella “soluzione non qualsiasi”.
L’UNICO PUNTO di contatto tra Quirinale e Pd è quando Bersani introduce il tema delle riforme istituzionali e della legge elettorale perché su “certi temi si parla con tutti”. Ma quando poi chiede “corresponsabilità a tutte le forze” sul programma di “cambiamento” del suo progetto di governo di minoranza, anche qui ritorna la pregiudiziale sul partito di Silvio Berlusconi: “Ci rivolgiamo a tutto il Parlamento anche per quel che riguarda i punti del cambiamento. Naturalmente ci sono punti che dalla destra sono stati impediti in questi anni, anche in quest’ultimo anno, quindi immagino che su questi punti di governo sarebbe una singolare via di Damasco”.
LA NAVIGAZIONE a vista del segretario democrat resta la stessa della vigilia. Giocarsi in Senato le sue carte, sperando in una non ostilità di quasi tutti i partiti, compresa la Lega, evocata ieri implicitamente con la proposta di una Camera delle autonomie. La partita delle prossime ore dovrebbe essere questa, se Napolitano cederà alla richiesta di Bersani. Per un giorno, massimo due, si allontana l’ipotesi di un governo istituzionale da affidare al neopresidente del Senato Piero Grasso. Nell’incontro di ieri, nessuno ha fatto questo nome. Né altri. È stato un match a due Bersani – Napolitano, e a questo punto inizia a profilarsi seriamente l’orizzonte delle elezioni anticipate in estate. Perché su un punto il Pd non si smuove: nessun dialogo con il Pdl per un governo di larghe intese. La direzione è opposta. E anche se ieri il M5s ha chiuso di nuovo tutti i varchi, Bersani è consapevole che in giro ci sono solo “debolezze”, compresa la sua. Di qui nasce l’insistenza del governo di minoranza, “debolezza per debolezza”.
Osserva un bersaniano: “Perché un governo Grasso, magari con il sostegno del Pdl, dovrebbe essere forte quando nessuno di noi lo voterebbe?”. Già, perché? Bersani si sente a tutti gli effetti il primo non vincitore: “Il Pd è la prima forza checché ne dica qualcuno. Noi siamo il primo partito, la prima coalizione e ci mettiamo al servizio del Paese e dell’Europa che guarda attenta e preoccupata la situazione italiana”. Una “forza” che non insegue nessuno. Il riferimento, stavolta, è ai grillini: “Ho sentito questa curiosa affermazione del Movimento 5 stelle in questi giorni, che noi dobbiamo votare i loro per rispetto ai loro elettori, ma loro non votano i nostri. Allora noi oggi abbiamo dimostrato rispetto per i loro elettori, loro non hanno mostrato rispetto per i nostri. Punto”.
Oggi Bersani conoscerà il suo destino. In cima alla sua agenda di premier incaricato o di esploratore ci saranno punti come la moralizzazione e la lotta alla corruzione. A sinistra non accadeva da tempo.
da Il Fatto Quotidiano del 22 marzo 2013