Per il supercommissario Enrico Bondi non c’è crisi che tenga. A inizio gennaio si era dimesso dall’incarico di commissario per la spending review per tentare di sedare le polemiche sollevate dal leader Pd, Pierluigi Bersani, che non gradiva il cumulo di poltrone e soprattutto il ruolo di selezionatore di curricula degli aspiranti candidati con Mario Monti in Scelta Civica. E a distanza di neanche tre mesi, ecco che per il manager aretino arriva un nuovo importante incarico: quello di amministratore delegato dell’Illva di Taranto di proprietà del gruppo Riva.
La nomina è stata anticipata dal presidente dell’azienda pugliese, Bruno Ferrante e confermata dai Riva l’11 aprile. L’ex prefetto di Milano aveva però svelato anche che Bondi, che ai tempi della spending review era anche commissario per il disavanzo della Sanità nel Lazio, lavorava già da tempo come consulente per il gigante siderurgico. Un contratto che, come ha spiegato Ferrante, ha permesso a Bondi di ”entrare nei meccanismi aziendali ”. ”Noi daremo a questa società una struttura nuova – ha spiegato il presidente dell’Ilva – Ci sarò io come presidente, ma mi affiancherà un professionista esterno di larga fama come il dott. Enrico Bondi che si è occupato di ristrutturazioni di tantissime aziende importanti”.
L’ultima, in ordine cronologica è stata Parmalat di cui, dopo il crac del 2003, è stato prima commissario straordinario per il risanamento e poi amministratore delegato della nuova Parmalat spa, quotata in Borsa, e finita nelle mani della francese Lactalis cui faceva gola la cassa (un miliardo e mezzo circa) racimolata dal manager aretino grazie ad una serie di cause vinte con le banche accusate di essere state complici dell’ex re del latte, Callisto Tanzi. Una gestione commissariale impeccabile che ha dato un taglio ad un passato fatto di aerei di famiglia, auto di servizio e sconti ai dipendenti sui prodotti della casa fruttando a Bondi e al suo staff (legali e contabili, inclusi) la stratosferica cifra di 32 milioni di euro. Una cifra decisa dal Comitato di sorveglianza del ministero delleAattività produttive e considerata un adeguato compenso per il rilancio di Parmalat dove il manager aretino ha fatto in tempo anche ad assumere nell’equipe dirigenziale il figlio del premier uscente di Scelta Civica, Giovanni Monti, messo poi alla porta dal nuovo azionista francese.
In precedenza il nome del risanatore di Parmalat si era legato a quello della famiglia Ligresti che lo aveva voluto nel 2002 alla guida di Premafin, la holding che controlla la compagnia assicurativa Fondiaria-Sai, che ha chiuso il 2012 con un rosso di 800 milioni ed è convogliata a nozze con Unipol non senza il dissenso dei piccoli soci e degli azionisti di risparmio. Ma l’incarico non ebbe lunga vita per via di uno scontro con il costruttore Salvatore Ligresti che non gradiva i metodi di Bondi.
Più lunga invece fu la permanenza in Montedison che ne consacrò l’ascesa di manager-ristrutturatore. All’inizio degli anni ’90, il gruppo, di proprietà dei Ferruzzi, si trova sommerso dai debiti e così viene ceduto ad un pool di banche con capofila la Mediobanca di Enrico Cuccia. Fu proprio quest’ultimo che lo volle alla guida di Montedison, che all’epoca era una holding cui facevano capo una serie di attività strategiche per il Paese. Fra queste, le assicurazioni Fondiaria-Sai, gli zuccherifici Eridania Beghin Say, i semioleosi Cereol e l’olio d’oliva Carapelli, nonché la futura Edison. Tutti asset, ad eccezione della sola Fondiaria, che sono finiti nelle mani di investitori stranieri anche per mano di Bondi cui Cuccia chiese di cedere asset per risanare il bilancio Montedison. Anche in quel caso quindi si trattò di una operazione da grande risanatore. A modo suo.
Eppure per personaggi di spicco che guardano l’Italia dall’estero Bondi, che fu uno dei 45 uomini capitalismo italiano che, nell’aprile 2007, firmò, assieme a Cuccia, una lettera al Parlamento con cui si domandava la depenalizzazione del falso in bilancio realizzata poi dal secondo governo di Silvio Berlusconi, non è altro che un tagliatore. Per Luigi Zingales, bocconiano di 49 anni con una cattedra di economia alla Chicago University, il manager aretino sarebbe stato quasi un idolo cui ispirarsi per il premier uscente che ” ha contenuto i danni sull’orlo della bancarotta” ed è ”il Bondi della politica: chiamato a salvare un’azienda al collasso, come Enrico Bondi a Montedison e Parmalat, taglia ma non rilancia”. A guardare il curriculum di Bondi, una cosa sembra certa: l’ex manager della spending review è un uomo di sistema. Di quel sistema delle banche italiane che gioca ancora al risiko industriale a spese di cittadini e lavoratori.
Aggiornato da Redazione web l’11 aprile 2013 alle 13.00