A Brescia c’è una emergenza sanitaria che tutti nascondono e che riguarda direttamente 25mila tra uomini, donne e bambini. Sono gli abitanti della zona che si estende a sud della Caffaro, la fabbrica adesso chiusa che dagli anni trenta fino a metà degli anni 80 ha prodotto migliaia di tonnellate di Pcb (policlorobifenili), al pari della diossina un pericoloso cancerogeno, sversandone centinaia di tonnellate allo stato puro nell’ambiente circostante. [brightcove]2265173120001[/brightcove]
Coinvolta è tutta la popolazione di Brescia, visto che in 50 anni di continuo inquinamento il Pcb è entrato nella catena alimentare, tramite le verdure, la carne, il latte e anche attraverso l’allattamento materno. Secondo Philippe Grandjean, il più grande studioso delle conseguenze nell’uomo della contaminazione da diossine e Pcb che siamo andati a intervistare a Boston, nella Harvard University dove insegna e fa ricerca, “più della metà del Pcb depositato nel grasso della madre passa al neonato tramite il latte materno”. La vicenda è conosciuta almeno da dieci anni, da quando cioè nel 2002 il sito Caffaro è entrato a far parte ufficialmente dei siti di interesse nazionale individuati dal ministero dell’Ambiente come sito fortemente contaminato da Pcb e quindi da bonificare. Quelli che invece sono nuovi sono i dati sull’insorgenza dei tumori, che questa sera vi mostreremo per la prima volta in Presadiretta.
Sono il risultato di una recente ricerca svolta da Paolo Ricci, epidemiologo della Asl di Mantova che segue il sito Caffaro da quando si è scoperto il grave inquinamento. La ricerca è stata realizzata dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con il Registro nazionale dei tumori, ed è quindi uno studio importante. Finora la Asl di Brescia aveva condotto negli anni studi sulla mortalità per malattie tumorali nella città, a confronto con quella media del nord dell’Italia e per questa strada aveva già registrato un aumento quasi del doppio di tante forme tumorali, ma la particolarità e l’importanza di questo studio è che rende conto della incidenza dei tumori a Brescia, “la mortalità risente della velocità di una popolazione ad ammalarsi ma anche del livello di assistenza mentre l’incidenza ci dice esclusivamente del rischio.
È quindi più puntuale e precisa sul rischio che i cittadini di Brescia hanno di ammalarsi di tumore”, ci spiega Paolo Ricci che ho invitato in trasmissione perché raccontasse quello che ha scoperto. Nella sua ricerca il tumore maligno alla tiroide segna un più 49 per cento di incidenza a Brescia rispetto al Nord Italia, il linfoma non hodgkin più 20 per cento, il tumore al fegato il più 58 per cento, mentre infine il tumore al seno schizza al 26 per cento in più. Secondo Ricci la correlazione tra questa maggiore incidenza e il Pcb è più che probabile, visti i risultati della ricerca scientifica internazionale, ma date anche le incredibili dimensioni dell’inquinamento dei terreni a sud della Caffaro rilevati dai tecnici del ministero dell’Ambiente e dell’Arpa.
Per i dati vale quello che ci ha detto Grandjean quando ci ha raccontato i risultati delle ricerche sugli effetti del Pcb sui quali lavora da più di venti anni : “È ormai provato che il Pcb provoca il cancro, in particolare cancro al seno, tumori del sangue e tumore al fegato. Ma fa anche molto di più: è collegato allo sviluppo del diabete e secondo le nostre ricerche impedisce il corretto sviluppo del cervello dei bambini, i bambini esposti al Pcb hanno capacità cognitive ridotte. Ma abbiamo visto anche che attacca il sistema immunitario del nostro corpo indebolendolo, aprendo la strada a diverse malattie”. Grandjean dà un giudizio senza appello: “Questo tipo di inquinamento va trattato come un serio problema di salute pubblica che richiederebbe una immediata bonifica perché espone la popolazione a malattie mortali”. Per quanto riguarda la dimensione, e l’estensione dell’inquinamento a Brescia, abbiamo ricostruito quartiere per quartiere l’incidenza del Pcb, nei terreni tra le case, nei parchi pubblici, persino vicino alle scuole elementari che i bambini continuano a frequentare.
Che cosa è stato fatto finora? Pochissimo. Un’ordinanza del Comune, in vigore da dieci anni, vieta alle persone che vivono nelle zone contaminate di passare sulle superfici non coperte da asfalto o da cemento, mentre la bonifica non è mai partita perché la Caffaro è una società fallita, una scatola vuota senza soldi e al ministero dell’Ambiente risorse non ce ne sono. Ma soprattutto, tranne pochi comitati, non si è voluto prendere atto di questa situazione, come se l’emergenza sanitaria non esistesse, un silenzio che a Presadiretta vogliamo squarciare.
di Riccardo Iacona
da il Fatto Quotidiano del 31 marzo 2013