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Verona, ideò “golpe” per il 25 aprile: sergente a processo al tribunale militare

Il militare del Sesto Stormo di Ghedi (Brescia) aveva deciso un piano sovversivo per la festa di Liberazione del 2012 con tanto di armi e blindati: voleva arrivare a un colloquio con i vertici dello Stato. Cercò complici con email e Facebook, ma tutti i soldati da lui contattati rifiutarono. Ora dovrà rispondere di istigazione all'alto tradimento
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L’attuale situazione sociale e politica in cui versa il Paese proprio non gli piaceva. Ma non gli piacevano troppo neppure gli strumenti democratici per cercare di cambiarla. Allora un sergente, all’epoca dei fatti in servizio al Sesto Stormo di Ghedi, in provincia di Brescia, aveva deciso di fare la sua “rivoluzione“, o meglio il suo golpe, progettando tutto nei minimi dettagli con tanto di utilizzo di armi e blindati, se fosse stato necessario. Data scelta per la spedizione la notte tra il 25 e il 26 aprile del 2012. Le tenebre avrebbero dovuto favorire lo spostamento ed eludere eventuali controlli.

Detta così potrebbe sembrare una sceneggiatura di un film, dalla trama non troppo seria e come protagonista ci sarebbe stato bene Sacha Baron Cohen. Ma è tutto vero. Tanto che il sergente è stato rinviato a giudizio: il processo inizierà il prossimo 2 ottobre davanti al Tribunale Militare e dovrà rispondere dell’accusa di “istigazione all’alto tradimento, per commettere un attentato contro organi costituzionali, continuato e aggravato”.

La vicenda è emersa dopo le indagini portate avanti da un’inchiesta istruita dal Procuratore militare di Verona, Enrico Buttitta e dal sostituto Luca Sergio, con il contributo investigativo della Digos. Inchiesta che – attraverso testimonianze, intercettazioni telefoniche, informatiche e ambientali, oltre che perquisizioni – ha portato a galla i dettagli della vicenda, ricostruendola. L’intenzione del sergente, secondo l’accusa, era quella di mettere in piedi una vera e propria spedizione punitiva con mezzi militari e di arrivare a Roma, fin sotto Palazzo Chigi per “turbare – si legge nella nota della Procura militare – le funzioni e le prerogative del capo del governo e dell’assemblea legislativa”. Insomma, il golpista voleva raggiungere i palazzi romani del potere nottetempo e chiedere un colloquio con il presidente del consiglio o, comunque, con un’alta carica dello Stato.

Nel caso gli fosse stata negata questa possibilità sarebbe passato ad imbracciare le armi. Secondo i pm militari il sergente sosteneva di poter entrare in possesso, oltre che di blindati, anche di parecchie armi: mitragliatrici “Minimi” e “Browning”, pistole Beretta, fucili d’assalto Ar70sc e lanciarazzi Panzerfaust. Non poteva fare tutto da solo, però. Allora aveva cercato di coinvolgere altri militari nel suo piano sovversivo, anche attraverso email e social network, Facebook soprattutto. Non proprio un’ottima strategia per chi non voglia farsi scoprire. Ma tutti i colleghi ai quali aveva proposto il golpe avevano rifiutato, mandando a monte i suoi propositi rivoluzionari. Inizialmente gli inquirenti si erano preoccupati parecchio per la vicenda, ma poi era emerso che non c’era nessuna organizzazione dietro al piano, ma soltanto il sergente. Il quale, però, sempre secondo gli investigatori, aveva la concreta possibilità di entrare in possesso delle armi di cui parlava nel progetto. L’accusato si è difeso dicendo che si trattava di una “semplice goliardata”. Della quale, però, ora dovrà rispondere davanti al tribunale militare.

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